Stavolta l'ombrello non ce lo presta. E non perché Mario Draghi si sia trasformato in uno di quei perfidi banchieri immortalati da un celebre aforisma di Mark Twain: molto più semplicemente, la Bce non è il bancomat con cui finanziare impulsi compulsivi da deficit spending. A maggior ragione se a chiedere il parapioggia è un governo che molto parla, e poco fa. Causando danni.
L'italiano Super Mario parla dell'Italia e dei suoi direttori d'orchestra, spezza il tono monocorde di una conferenza stampa resa ieri insipida dalla solita rifrittura sul finis vitae del quantitative easing (confermato il termine a dicembre, con acquisti dimezzati da 30 a 15 miliardi da ottobre) e sull'aumento dei tassi (non prima dell'autunno 2019), e ci mette del pepe. L'uso delle parole è accorto. Ma i messaggi che manda sono quanto di più chiaro si possa pretendere da chi fa dell'understatement uno stile, quasi a smascherare l'insofferenza verso chi le leve di comando le gestisce senza troppo riflettere sulle conseguenze di ogni scelta. Attacca Draghi: da parte degli esponenti di governo «negli ultimi due mesi le affermazioni sono cambiate più volte, ora aspettiamo fatti, che sono la legge di bilancio e la successiva discussione parlamentare: a quel punto gli investitori si faranno la loro idea». Insomma, basta esibire solo chiacchiere e distintivo: è ora di agire e di onorare gli impegni. È quanto la Bce si aspetta: una quadra raggiunta su legge di Bilancio e nota di aggiornamento al Def. «La Banca centrale europea si atterrà a ciò che hanno detto il primo ministro italiano, il ministro dell'Economia e il ministro degli Esteri, e cioè che l'Italia rispetterà le regole», taglia corto. Anche perché il chiacchiericcio circolare della compagnia Di Maio&Salvini ha già «creato danni con una crescita dei rendimenti» che ha colpito «sia le famiglie che le imprese». Tirato in ballo, Salvini replica così: «Conto che gli italiani in Europa facciano gli interessi dell'Italia come fanno tutti gli altri Paesi, aiutino e consiglino e non critichino e basta». Eppure, non molto diverse da quelle di Draghi erano state le parole pronunciate la scorsa settimana dal ministro del Tesoro, Giuseppe Tria, sull'inutilità di reperire affannosamente 2-3 miliardi di deficit se poi ne facciamo evaporare 4 a causa dei bollori da spread.
Dunque, almeno per Draghi, meno male che Tria c'è a riportare tutti coi piedi per terra. A impedire richieste irrealistiche. Come quella di una garanzia con la bollatura Bce sul rifinanziamento del debito pubblico. Una specie di ciambellone comunitario per silenziare lo spread. Draghi non ci sta. E mette le mani avanti: il mandato dell'istituto di Francoforte è «quello di assicurare la stabilità dei prezzi, non di assicurare che un deficit pubblico sarà finanziato ad ogni costo». Una volta esauriti gli acquisti dei nostri bond, dovremo quindi cavarcela da soli. In un momento, peraltro, in cui c'è poco da scherzare. Per cominciare, l'eurozona sta rallentando. Prova ne è la limatura alle previsioni di crescita: dal 2,1% stimato per il 2018 in giugno si passerà a un 2%; l'anno prossimo il Pil salirà dell'1,8% contro il precedente 1,9%, mentre per il 2020 è stata confermato un +1,7%. Draghi vede «tre temi» che sono fonte di «incertezza»: il protezionismo; le sofferenze di alcuni Paesi emergenti, non solo Argentina e Turchia, e la «profonda trasformazione» dell'economia cinese; l'aumento della «volatilità dei mercati». Rischio, quest'ultimo, che può impattare su Paesi fortemente indebitati come il nostro.
Ecco perché, secondo l'ex governatore di Bankitalia, quanti si trovano in queste condizioni «dovrebbero essere i primi a ricostruire lo spazio fiscale, approfittando dei bassi tassi di interesse». Come dire, ancora una volta: vietato manomettere i conti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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