«In nessun momento ho tentato di usurpare l'autorità o inserirmi nella catena di comando». Il capo di stato maggiore congiunto Mark Milley smentisce al Congresso le rivelazioni dell'ultimo libro di Bob Woodward Peril («Pericolo»), secondo cui il generale limitò l'accesso di Donald Trump alle armi nucleari e telefonò due volte all'omologo cinese per rassicurarlo che gli Usa non stavano preparando alcuna guerra contro Pechino.
Per la prima volta dal caotico ritiro americano dall'Afghanistan i vertici militari Usa sono stati messi sotto torchio dalla Commissione Forze armate del Senato, e durante l'audizione si è parlato anche dell'ex presidente e dei suoi ultimi suoi mesi alla Casa Bianca. In particolare, del comportamento tenuto da Milley descritto dal giornalista due volte premio Pulitzer che insieme a Carl Bernstein rivelò i retroscena del Watergate. «Sono certo che Trump non avesse l'intenzione di attaccare i cinesi ed era mia responsabilità diretta, a nome del Segretario alla Difesa, fare conoscere gli ordini e le intenzioni del presidente» ha detto al Senato il generale, smentendo di aver dubitato dello stato mentale del tycoon. «Non sono qualificato» a determinare la sua salute mentale, ha proseguito rispondendo ad una domanda sulle rivelazioni di Woodward: «Il mio compito è di dare un parere e di assicurarmi che il comandante in capo sia sempre pienamente informato».
Milley ha raccontato che la speaker della Camera Nancy Pelosi lo chiamò l'8 gennaio, due giorni dopo l'assalto al Congresso da parte dei sostenitori di The Donald, per chiedergli delle capacità di Trump di lanciare un attacco nucleare. «Cercai di rassicurarla che un lancio nucleare è governato da un processo molto specifico - ha sottolineato - Era preoccupata e fece vari commenti personali su di lui. Io le dissi che il presidente è l'unica autorità con il potere di lanciare un attacco nucleare, ma che non può farlo da solo. Ci sono protocolli e procedure e non c'è alcuna possibilità di un lancio accidentale o non autorizzato». Quindi, il generale ha rivendicato la sua «totale lealtà» alla Costituzione degli Stati Uniti e la legittimità delle sue due telefonate all'omologo di Pechino Li Zuocheng per rassicurarlo contro azioni militari ostili negli ultimi mesi della presidenza Trump. «Ho comunicato regolarmente con la mia controparte cinese» ha spiegato, ricordando che alle sue chiamate assistettero dalle otto alle undici persone e che il «suo lavoro era ridurre l'escalation».
In seguito a una telefonata dell'8 gennaio con il collega del Dragone, inoltre, ha assicurato di aver informato l'allora segretario di stato Mike Pompeo, il capo di gabinetto della Casa Bianca Mark Meadows, e il segretario della Difesa ad interim Christopher Miller.
Sul ritiro dall'Afghanistan, invece, Milley e il capo del comando centrale Usa Kenneth McKenzie hanno contraddetto Joe Biden, affermando di avergli consigliato, senza successo, di mantenere 2.500-3.500 soldati nel Paese per garantire la stabilità del governo e dell'esercito. Il presidente, al contrario, ha sostenuto di non aver mai ricevuto alcun suggerimento in questo senso dai suoi consiglieri militari.
Peraltro, davanti alla commissione del Senato, il capo di Stato maggiore congiunto ha anche messo in guardia sul rischio terrorismo: «Un'Al Qaida riorganizzata o un Isis con aspirazioni ad attaccare gli Usa è una possibilità molto reale che potrebbe presentarsi nei prossimi 12-36 mesi».
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