Giù le mani dalla "Dolce vita" anche se è amara

Annunciato il remake del film di Fellini. Tante perplessità, una sola certezza: la Roma di oggi offende quella di ieri e il novello Mastroianni al massimo può farsi un selfie con Renzi

Giù le mani  dalla "Dolce vita" anche se è amara

L'idea di un remake cinematografico, di produzione italo-americana (la Ambi Group, che vanta già il benestare della famiglia Fellini), di La dolce vita , fa sorridere. Il sapere che si tratterebbe di «una versione moderna», fa rabbrividire. Che cosa ci sia di «dolce» nella vita quotidiana dei romani d'oggi, è impossibile da dire e, più in generale, se quella di Fellini era l'Italia del boom economico e insieme della fine delle illusioni, quella attuale ha ormai fatto il pieno delle delusioni, non crede più a niente, ma, come sempre, si affida all'«ingresso in campo dello straniero», che sia greco o che sia tedesco poco importa, e anche questo aiuta a delineare il nostro futuro da panchinari della storia. Alla scomparsa del soggetto, una capitale e insieme una nazione, si affianca inoltre la mutazione antropologica di quelli che ne erano gli abitanti. L'Italia felliniana della Dolce vita era ancora riconoscibile dalle facce. Note o di gente comune, di scrittori come di operai, di ragazze belle e di ragazze povere, di ragazze povere, ma belle, portavano scritta la fisionomia di un Paese premoderno, decoroso, miracolosamente e pericolosamente in bilico fra tradizione e progresso. Marcello Mastroianni ne incarnò al meglio quello che per alcuni versi era il suo peggio, una bellezza indolente, cinica eppure allegra, una strafottenza malinconica... Oggi, nessuno assomiglia più a nessuno, non esiste più il tipo italiano, esiste un simil-americano, un finto-inglese, un turco-padano. Con l'identità si è inabissata anche quell'italianità architettonica, quella misura ideale di piazze, giardini, fontane, ville e casali, edilizia popolare, che era la ragione di un'unicità e del suo fascino. Si è costruito a Roma pensando di essere a Dallas, a Napoli fingendo fosse Tokyo, a Milano scambiandola per Abu Dhabi...

Anche la svedese Anita Ekberg in fondo era una «faccia italiana», nel senso che rappresentava un continente di lussuria che faceva da contraltare alla casalinga carnalità di una Sophia Loren popolare e mariuola: rimandava al sesso, non al peccato, alla fisicità pagana, naturale e impudica, non alle semplici corna domestiche. Era il frutto di una provincialità sana, consapevole, senza complessi, la provincialità del romano che sapeva che cosa fosse la fame e che all'arrivo sul set del film dell'attrice Anouk Aimée, magra, sofisticata, racée , l'alter ego, appunto della Ekberg, aveva urlato all'indirizzo di Fellini: «A Federì, portela ar Verano», ovvero al cimitero... Oggi l'opulenza di Anitona è appannaggio dei transessuali, e anche questo è un segno dei tempi.

Diceva Ennio Flaiano, che fu uno degli sceneggiatori della Dolce vita , che «Roma era l'unica città mediorientale a non avere un quartiere europeo». Peccava per difetto, perché allora il Medio Oriente era ancora una civiltà, e Roma ormai è soltanto terzo mondo. Anni prima, con un romanzo che si intitolava Tempo di uccidere , aveva vinto il Premio Strega, il più prestigioso dei nostri premi letterari. Oggi lo Strega lo vince persino Francesco Piccolo, anche lui sceneggiatore, e insomma abbiamo già dato, «remakare» stanca e non porta da nessuna parte.

Per riassumere la morale di quel film, Flaiano usò due versi di Vincenzo Cardarelli: «La speranza è nell'opera/ Io sono un cinico che ha fede in quel che fa» e una poesia di Cardarelli era attaccata nello specchio del bagno della casa di Centocelle di Tazio Secchiaroli, che della Dolce vita , cinematografica e non, fu il fotografo. Si intitola Estiva e basterebbe da sola a far capire perché Cardarelli sia un grande non amato dalla «classe dei colti» che da noi ha imperversato nell'ultimo cinquantennio e, fatti salvi i decessi, ancora imperversa e ha il già citato Piccolo fra gli utilizzatori finali: «Distesa estate,/ stagione dei densi climi/ dei grandi mattini/ delle albe senza rumore/ dei giorni identici astrali,/ stagione la meno dolente/ d'oscuramenti e di crisi,/ felicità degli spazi». Aveva fatto in tempo, Secchiaroli, a conoscere quello che, con sottile perfidia, gli amici chiamavano «il più grande poeta morente». D'inverno e d'estate seduto a un tavolino del caffè Strega di via Veneto, con addosso un eterno cappotto, il cappello in testa, i camerieri che lo spostavano come fosse un fantoccio, uno sfacelo fisico che faceva sì che Longanesi cambiasse di marciapiede per non vederlo, per non dover fare i conti con il tramonto di un'idea e di un pensiero. «Nun me fa' la foto!» gridava Cardarelli al giovane Tazio mandato a immortalarlo, e gli agitava il bastone davanti alla macchina. Secchiaroli non capiva e scattava. Credeva di riprendere un patetico vecchio, e invece erano gli ultimi brandelli di un'Italia irripetibile. Oggi che tutti si fanno un selfie, a via Veneto come a Tor Pagnotta, anche fotografare stanca e tutt'al più porta a immortalare il premier Renzi impegnato alla Playstation.

Su chi possa prendere il posto di Fellini sul nuovo set, non staremo a perdere tempo. Federico era un provinciale estroverso e inquieto, un fabbricante di miti barocchi a cui si addiceva quel verso di Auden che dice: «Fammi casto, Signore, ma non subito». Definì La dolce vita un film «sulle illusioni sbagliate, i qualunquismi, le passioni sterili. È tutto rotto. Non crediamo più a niente. E allora? Tutto questo detto virilmente, senza nostalgie, senza sentimentalismi». Al giorno d'oggi, di virile c'è poco, di sentimentalismo ce n'è troppo e nemmeno la nostalgia è più quella di un tempo...

Piuttosto, l'unico remake che varrebbe la pena di fare sarebbe quello di Un marziano a Roma , sempre di Flaiano, oggi attualissimo, con il sindaco Ignazio Marino nella parte dell'extraterrestre Kunt, «tipico caso dell'idolatria dell'ignoto» che, da un iniziale entusiasmo, si trasforma in ostilità e sarcasmo.

«Nel grigio silenzio qualcuno ha gridato forte: “A marziano!”... Il marziano si è subito voltato, ma ancora una volta il silenzio è stato rotto e stavolta da un suono lungo, straziante, plebeo. “Mascalzoni!” ha gridato il marziano». La pernacchia potrebbe essere il nuovo titolo.

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