Un grande piano di investimenti Solo così l'Italia torna a crescere

Per la ripresa servono regole più flessibili e lotta al sommerso, da finanziare con gli Eurobond. E vanno coinvolti pure i Paesi del Mediterraneo per fermare l'invasione di migranti in Europa

Un grande piano di investimenti Solo così l'Italia torna a crescere

Renzi sostiene che il cielo è azzurro, lo fa da quando è al governo. La gente è zuppa di pioggia, rischia di prendersi i fulmini, e lui insiste, gufo chi lo nega. Una volta la tecnica poteva funzionare. Era un negazionismo che serviva a innescare la fiducia di consumatori, produttori; la congiuntura finiva, e riprendeva il ciclo dello sviluppo. Renzi in questo è il più vecchio dei politici in circolazione, e Padoan dovrebbe spiegargli cosa sta accadendo, ma se ne guarda bene. Questa crisi non è come quelle precedenti, è persino peggio di quella del '29. Per una volta mi permetto di avvisare il Fiorentino: qui non troverà solo critiche, ma proposte da fare a Bruxelles e in sede più larga, Onu e G20, e se lo fa, lo sosterremo. Faccia in fretta però.

Il cielo non è azzurro, la paura è legittima. Non sono io a rivelarlo, ovvio. È dal 2008 che dura il diluvio sull'economia mondiale. Poco conta dire che è partito dall'America. Dare le colpe non serve. A causa della sciagurata politica di austerità imposta dalla Germania, gli Stati dell'Unione sono dovuti star lì a guardare il disastro senza far niente. Risultato: questa crisi che prima i pessimisti ritenevano dovesse rimarginarsi entro due/tre anni, ora ha una longevità spaventosa, mai vista. Nessuno crede più che il corso della vita comune sarà più come prima. C'è un'incertezza totale indotta dalla crisi, e non può più essere esorcizzata con il mantra renziano: abbiamo svoltato, l'Italia riprende.

Acclarato che lo scatenarsi del diluvio sull'Europa non è di origine europea, essa ha reagito nel modo peggiore. Invece che affrontare le cause del diluvio, ha chiesto ai suoi membri di area euro di chiudersi in casa, di mettere sotto chiave i risparmi. Così gli Stati incatenati alle regole del «fiscal compact» (che è illegale proprio rispetto al trattato di Maastricht del 1992, vedi gli studi del professor Giuseppe Guarino) hanno lasciato che fosse il mercato a risolvere la crisi, a prosciugare le acque dell'alluvione. E che è successo? Il mercato, sotto forma di speculazione, ha fallito, non ha sistemato un bel nulla.

Gli Usa che per loro (e nostra) fortuna non erano vincolati dalle regole suicide di Bruxelles, pragmaticamente hanno usato la mano pubblica. Hanno lasciato fallire la Lehman Brothers come segnale al mondo finanziario, hanno salvato il resto e si sono fatti restituire con gli interessi le spese di emergenza e gli investimenti in deficit. Non sono usciti completamente dal pantano, ma intanto non ci affondano come noi.

Ci hanno bruciato la casa, ricostruiamola. Qualche giorno fa il Wall Street Journal spiegava questo fenomeno tracciando la differenza tra un incidente stradale, da cui si esce vivi ma con la macchina distrutta, e un incendio che brucia un'intera casa. La macchina distrutta è certamente un problema, ma lo shock viene smaltito in tre-sei mesi. Al contrario, la propria casa in fiamme è un'immagine che resta impressa nella memoria per sempre. Per questo ha successo Trump. Punta sempre il dito su quella memoria della casa in fiamme, e dà la colpa di questo alla esagerata generosità americana, ad esempio, nello spendere montagne di dollari per la difesa dell'ingrata Europa... Da noi è peggio. Non siamo stati vittime di un incidente. Se così fosse, avremmo già riparato la macchina, o ne avremmo acquistata un'altra. È bruciata la casa e non stiamo investendo nessuna risorsa, magari facendo debiti, per ricostruirla. Mentre qualche anno fa c'era ancora la fiducia da parte dei consumatori e delle imprese nella ripresa, adesso è proprio la fiducia che manca.

Il tema è l'incertezza lavorativa, che a catena blocca i consumi e la crescita. Insomma, il sistema si è inceppato. Travolgendo anche la Bce. Il blocco psicologico-mentale ha inibito anche la trasmissione della politica monetaria per cui la liquidità immessa dalla Bce è rimasta «intrappolata», senza riuscire a re-innescare il ciclo produttivo. Perché proprio più consumi e più investimenti generano quella crescita da cui derivano i nuovi posti di lavoro. Se non c'è crescita non c'è lavoro.

Allo scenario sopra descritto, si aggiunga in Italia una situazione ancora peggiore. Da 20 anni abbiamo bassa crescita, mercato del lavoro rigido e tutta la flessibilità scaricata sul lavoro sommerso, nero, illegale. Ne deriva che abbiamo circa 23 milioni di occupati, mentre dovremmo averne, se avessimo le stesse regole e la stessa cultura, per esempio, degli inglesi, almeno 4-5 milioni in più. Eppure, per risolvere l'endemico sottodimensionamento del nostro mercato del lavoro, una formula ci sarebbe. L'Italia dovrebbe puntare contemporaneamente su 3 obiettivi, tra loro interconnessi: 1) più crescita; 2) regole più flessibili, così da migliorare l'elasticità dell'occupazione alla crescita; 3) lotta intelligente al lavoro sommerso, all'economia sommersa, all'illegalità. Tutte e 3 questi obiettivi andrebbero implementati parallelamente, adottando però una grande strategia di investimenti pubblici e privati finalizzati all'aumento strutturale della produttività e della domanda. E questo, un vero Jobs Act, altro non è che un piano di sviluppo e di benessere dell'economia. Le tre misure combinate possono portare finalmente il nostro Paese non solo ad avere tassi di crescita costanti sopra il 2%, o in ogni caso coerenti con le migliori performance europee; ma anche capacità di creare occupazione in misura tale da colmare il gap con i Paesi con i quali siamo in competizione.

Più mercato, quindi, per avere più efficienza e produttività; ma anche più Stato, nel senso di interventi pubblici laddove il mercato fallisca. Più investimenti pubblici in infrastrutture, materiali e immateriali, e più sicurezza, per generare domanda. Il tutto finanziato attraverso l'emissione di Eurobond strategici, decisi a livello europeo. Come insegna David Ricardo, infatti, per uno Stato l'unica giustificazione economica e morale per fare deficit, e di conseguenza debito, sono gli investimenti. Un piano Marshall per salvare l'Africa cioè noi stessi. Un grande piano di investimenti da fare non solo in Europa, ma «tout azimut», vale a dire comprendendo anche il bacino di tutti quei Paesi da cui arrivano le ondate migratorie, con ovvi effetti di stabilizzazione e regolazione dei flussi. Al contrario, il cosiddetto Migration compact proposto da Matteo Renzi si rivela parziale, perché opera prevalentemente «a destinazione», cioè sulle nostre coste, e così facendo finisce per attrarre flussi anche maggiori. Da questa scelta strategica deriva la svolta: più domanda significa più consumi, più crescita, più occupazione, più fiducia e meno tasse. Per vincere l'incertezza, i populismi e gli estremismi.

Ora se non si provvede con un piano Marshall finanziato non solo dall'Europa (ne ha parlato ieri anche il cardinale Scola, il più lungimirante esponente della gerarchia ecclesiastica), ma con vincoli cogenti per tutti i Paesi del G20, l'Africa con i suoi probabili cento milioni di immigrati ci cadrà in testa, e lo tsunami che ne verrà sommergerà l'economia globale e ne travolgerà qualsiasi ordine. Altro che crisi infinita, sarà un disastro epocale inimmaginabile.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica