Il governo giallorosso nascerà, qualcuno dice che già a inizio settimana potrebbe andare a chiedere la fiducia alle Camere.
Conte avrà un vice del Pd: si parla di Dario Franceschini, ma Nicola Zingaretti non vuole un manovratore abile come lui nel ruolo di capo-delegazione, perché rischierebbe di fargli ombra, e dunque spinge per la sua vice Paola De Micheli, in nome della necessità di avere una donna nell'esecutivo. E il premier, forse, avrà anche un vice del suo medesimo partito, nella persona di Di Maio. Il Pd ufficialmente si oppone, e con molte ottime ragioni. Conte cerca di blandirli, invitandoli a non umiliare troppo l'ex dioscuro di Salvini. E nel Pd più d'uno apre all'ipotesi. «Conviene anche a noi - ragionano in casa - altrimenti nei Cinque stelle, già in confusione, si scatena la guerra per bande e lui da fuori ci fa la guerra».
I numeri per la maggioranza ci sono, e saranno - si assicura - «assai più forti di quelli del Conte precedente». La fronda grillina, con Paragone e altri filo-Lega che minacciano di non votare, si manifesterà, ma solo se i frondisti avranno la ragionevole certezza che la legislatura (e il loro stipendio parlamentare con essa) vada comunque avanti. Gli ex scissionisti di Leu e i centristi uniranno i propri voti a quelli dem, la Bonino si tira indietro («Non voto nulla a scatola chiusa») ma è una posizione di partenza. Al Senato si sta risicati ma poi, assicurano i tessitori parlamentari dell'intesa, «una volta partito il governo, vedrete quanti arriveranno, anche dal centrodestra». Il compito principale (e non detto) della maggioranza nascente sarà il varo di una legge proporzionale che farà felici un po' tutti, quindi - è il ragionamento - tutti ne aiuteranno il cammino, «fino al 2023».
Ma la giornata di ieri è ruotata tutta, drammaticamente (almeno per lui), attorno alla crisi esistenziale di Gigino Di Maio. Il cosiddetto (e ormai per modo di dire) capo politico dei Cinque stelle, nell'ultimo disperato tentativo di far saltare il banco, si è impuntato sul proprio ruolo. Prima ha reclamato nottetempo (con la sponda esterna dell'ormai disoccupato Salvini) il ministero degli Interni, poi in mattinata ha annullato l'incontro previsto con la delegazione Pd ed emesso una nota in cui attaccava a testa bassa i dem che «hanno le idee confuse, parlano solo di poltrone e ancora non ci hanno chiarito se vogliono Conte o no». Ben sapendo che il leader Pd Zingaretti già la sera prima aveva dato via libera a Conte, tanto da rifiutarsi di discutere di governo con Di Maio e pretendere la presenza del premier uscente e rientrante. A quel punto il Pd ha sospeso le trattative, denunciando: «Di Maio vuole fare il ministro dell'Interno e il vicepremier. Su questo non sente ragioni e va avanti a colpi di ultimatum». Dentro i Cinque stelle si è scatenato l'inferno. Sul povero Di Maio si sono abbattuti cazzotti (verbali) a non finire, e non solo da parte dei nemici storici come Carla Ruocco o Roberta Lombardi, che lo ha perentoriamente invitato a «non anteporre se stesso al Paese», ma anche di dirigenti un tempo a lui vicini, come i capigruppo D'Uva e Patuanelli. I quali hanno ben chiaro che per i Cinque stelle non ci sono scelte: non possono permettersi di andare al voto, e non possono tornare con la Lega.
Ergo, il governo va fatto e pure in fretta. Costretto dai suoi a indietreggiare sul Viminale, Di Maio ha chiesto di restare vicepremier, oltre che ministro di qualcosa (Difesa, ad esempio). Ma intanto la trattativa prosegue nella notte.
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