Grazie agli abiti scopriamo la nostra «Africa interiore»

U no scrittore francese del '900, il poeta romantico Jean Paul Richter, inventò un termine che rimase famoso nel tempo: quello dell'Africa interiore. Cos'è l'Africa interiore? È quel groviglio di sentimenti che stanno ben celati nel nostro intimo, in quel continente esotico e a noi stessi sconosciuto che è l'inconscio. Anche nel nostro modo di vestirci e di mostrarci al mondo abbiamo un continente nascosto, ancora sconosciuto: la nostra Africa interiore, il continente selvaggio e impervio che abita il nostro inconscio più profondo, e che spesso nascondiamo agli altri, e anche a noi stessi. Perché parlo di Africa interiore, ovvero di inconscio, a proposito dell'aspetto che tutti crediamo (a torto) sia il più superficiale ed effimero di tutti, ovvero quello del vestire, della moda? Perché il modo in cui ci vestiamo, in realtà, esprime qualcosa di un continente che noi stessi a volte non conosciamo neppure: il vestire è una cartina di tornasole della nostra maniera di relazionarci con gli altri, del nostro rapporto con noi stessi, dell'immagine che abbiamo di noi e di quella che vorremmo mostrare al mondo esterno.

Un tale, ad esempio, che ami vestirsi in maniera affettata, con un'eleganza un po' forzata, eccessiva, rivelerà il desiderio di essere riconosciuto come un originale, ma senza aver mai fatto nulla per esserlo davvero: «Sebbene non sia in grado di dipingere, non sappia suonare alcuno strumento, non sappia scrivere, sarò però un artista perlomeno del mio modo di vestire», sembrerà dire costui con i suoi eccessi e le sue bizzarrie estetiche. Un'adesione totale alle mode correnti, con le sue griffe, i suoi marchi bene in vista, insomma tutto il corollario di ciò che «va» secondo il gusto corrente, rivela invece soprattutto una grande insicurezza, un volersi (e doversi) adeguare alle mode correnti senza alcuna vera comprensione di quello che comporta: un voler cioè seguire la massa per non rivelare la poca fiducia che si ha di sé stessi. Un altro, invece, che si vesta sempre in grigio, in maniera stancamente e magari un po' sciattamente conformista, senza verve e senza identità, rivelerà (sempre senza volerlo) una volontà di mascherare un disagio interiore, un desiderio di non far mostra a nessun costo dei lati più nascosti del suo essere: magari una gran voglia di libertà e di trasgressione, che però è sempre ben celata sotto lo strato dell'ordinarietà del vestire che si sceglie quotidianamente. Altre volte, invece, l'ordinarietà del vestire è pura mancanza di fantasia, e, ancora una volta, mancanza di fiducia nelle proprie doti nascoste: non sapendo come affrontare il mondo, non avendo fiducia nelle mie doti creative e relazionali, mi costruisco una piccola gabbia in cui sto comodo (la mia «comfort zone»), fatta di pullover incolori, di giacche anonime, di fantasie sempre uguali a sé stesse. Chi sceglie invece una cravatta sgargiante sopra un abito ordinario è come se volesse dire, anzi gridare al mondo: io seguo le regole che seguono tutti per scelta etica e comportamentale, ma sappiate che, qua sotto, batte un cuore romantico, creativo, ironico, un po' pazzo. È come un invito a condividere con gli altri un pizzico di trasgressione, pur mantenendo un'aurea di rispettabilità borghese.

Così, invece, chi si vesta in maniera trasandata, non farà altro che dire: ciò che mi interessa è il cuore, l'animo, o l'intelletto, e non l'involucro che li ricopre (non a caso, spesso sono gli intellettuali o gli artisti, sebbene con molte eccezioni, a non badare troppo al modo di vestire). Chi si ricopre di gioielli, ha bisogno di conferme, di certezze, e probabilmente anche di affetto, la cui mancanza profonda viene sostituita con tutta una serie di orpelli.

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