Mancano gli studi. Mancano i dati. Manca un quadro nazionale con le tendenze del fenomeno. Paolo Crepet, uno dei più noti psichiatri italiani, è tranchant: «Dichiarare guerra alla ludopatia è un ottimo spot per il governo a caccia di consensi, ma il problema è che non sappiamo contro chi combattiamo».
Il gioco sembra essere una piaga del Belpaese.
«Ha detto bene: sembra. Non ci sono studi scientifici complessivi, ma solo qualche ricerca qua e là. Con tutto il rispetto, io non posso prendere per oro colato l'allarme lanciato dal parroco di qualche paesino dove magari due persone si sono rovinate con le slot».
E che cosa servirebbe invece per comprendere il problema?
«Io vorrei sapere se il gioco è più diffuso al Nord o al Sud, fra gli uomini o fra le donne, fra i ricchi o i poveri, fra i giovani o gli anziani. Invece, procediamo a spanne e qualche volta rischiamo di ingigantire il tema».
Sappiamo che molte persone sono dominate da questa pulsione irrefrenabile per le macchinette, per l'azzardo, per le scommesse.
«Si, ma sono percezioni. Che, come tali, valgono poco o nulla. Io, per essere chiaro, penso che se avessimo davanti la curva del fenomeno faremmo scoperte interessanti. Credo che negli ultimi dieci anni la dipendenza dal gioco non sia aumentata, non si sia diffusa come un'epidemia nel nostro Paese. Forse non è nemmeno diminuita, ma secondo me non è cresciuta».
Ma gli allarmi che rimbalzano di continuo?
«C'è una tendenza a enfatizzare, a demonizzare, a trattare come ludopatiche persone che non lo sono. La signora non più giovanissima che va al casinò in Croazia due volte al mese e si gioca un quarto della pensione può essere considerata una malata? No, perché quella signora esce di casa, stabilisce delle relazioni, si mette il vestito bianco che non sapeva neanche più di avere e in compagnia torna a sorridere. I benefici superano le difficoltà».
Crepet, non sarà un negazionista?
«No, semmai non sono uno stupido e so distinguere: un conto è perdere un quarto della pensione, altra cosa è dilapidare in una notte il patrimonio di una famiglia o sfasciare un'azienda. Sono situazioni diverse che vanno trattate in modo diverso. Non ha alcun senso criminalizzare tutto e tutti».
La crisi economica non ha favorito questa piaga?
«Altro luogo comune: semmai è vero che prima il tonfo veniva attutito dal contesto sociale e economico, più solido, oggi gli ammortizzatori non ci sono più e si va a fondo prima e più rapidamente, ma la dinamica non cambia. Piuttosto c'è un altro aspetto, decisivo, che rischia di rimanere in ombra».
A cosa si riferisce?
«Il malato di gioco spesso è una persona che ha altre dipendenze. La pulsione è solo un aspetto di una personalità distorta che, magari, è schiava dell'alcol, è soggiogata dalle droghe, ha una situazione familiare disastrosa».
Come si curano questi soggetti?
«È un problema nel problema. Certo, non basta qualche seduta di psicoterapia. O qualche visita, peraltro in carico agli specialisti che affrontano le tossicodipendenze, perché un servizio ad hoc, che io sappia, non esiste. Si deve intervenire sulle cause che sono precedenti o, se si preferisce, più profonde».
Il Governo?
«Il Governo non può cavarsela con un decreto. Certo, la pubblicità va regolata.
Ma la questione dell'azzardo andrebbe fronteggiata con altra serietà. Esplorando un mondo sconosciuto, ancora di più dopo l'avvento delle tecnologie digitali che hanno stravolto costumi e abitudini. Si, ci vorrebbe più serietà e meno isteria».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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