Meglio il mare o la montagna? Visto l'aria che tira dal versante governativo, senz'altro meglio la collina. Anzi: il Colle per eccellenza, quello del Quirinale. È lì che mercoledì scorso il numero uno della Bce, Mario Draghi, ha fatto visita al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un tête-à-tête durato qualche ora, a riflettori spenti e senza il pressing di taccuini e telecamere, mentre sui mercati andava in onda il solito balletto mortuario dello spread accompagnato dalla litania di altri ribassi in Borsa. L'incontro, su invito di Mattarella (che è solito invece pubblicizzare gli appuntamenti quirinalizi), doveva restare top secret per non rafforzare l'idea che sull'Italia sia scattato l'allarme rosso. Del resto, non è che tutti i giorni Super Mario faccia la transumanza da una capitale all'altra dell'eurozona per interloquire coi capi di Stato.
Ma, poi, si sa come vanno a finire queste cose: qualche spiffero tracima sempre dalle blindate stanze, per finire su giornali e tv. E il riservatissimo diventa molto pubblico, anche se non ci vuole molta fantasia per immaginare che quello tra Mattarella e Draghi è stato un incontro a specchio: entrambi, infatti, condividono le stesse preoccupazioni sulla deriva dei conti italiani e sullo scontro dialettico sempre più invelenito tra il duo Salvini-Di Maio e l'Europa. Temi che si intersecano con la sostenibilità del debito tricolore, argomento spinoso su cui le agenzie di rating emetteranno tra qualche settimana il loro verdetto. Anche un ribasso di una sola tacca spingerebbe il Paese vicino alla soglia della valutazione junk, spazzatura, con gravi ripercussioni sulla fiducia degli investitori per le attività made in Italy.
Già a metà settembre, venendo meno al suo tradizionale understatement, l'ex governatore di Bankitalia aveva intimato al governo di smetterla «di fare danni». Segno di un'irritazione crescente nonostante, allora, la forbice di rendimento tra Btp e Bund non si fosse ancora allargata oltre i 300 punti (ieri chiusura a 285, con Piazza Affari in calo dell'1,3%). Visto il disastro successivo, costato miliardi su miliardi di capitalizzazione di Borsa svaporata e di maggiori oneri sul debito pubblico, i danni sono aumentati e il sopracciglio di Draghi si è inarcato più di quello di Ancelotti. Ciò che probabilmente risulta particolarmente indigesto al numero uno dell'Eurotower è non solo la sottovalutazione dello spread, ma la percezione fallata del quadro congiunturale (crescita in rallentamento nell'eurozona) e finanziario (mercati più volatili, e dunque più facili a reazioni violente) in cui si sta incastonando la manovra finanziaria. È un punto, quest'ultimo, su cui Draghi avrà quasi certamente insistito con Mattarella. A sua volta ben consapevole dell'ormai prossimo finis vitae del piano di acquisto titoli. Ovvero di quegli aiuti della Bce con cui, dalla primavera del 2015, è stato tacitato lo spread e permesso quindi al Tesoro di beneficiare di tassi di rifinanziamento assai bassi. Già da questo mese, gli acquisti complessivi da parte di Francoforte sono scesi a 15 miliardi mensili; si azzereranno da gennaio 2019, anno in cui il ministro Tria dovrà collocare 400 miliardi di debito. Con i rendimenti attuali sarebbe un salasso tale da polverizzare quelle risorse in deficit usate per finanziare i cavalli di battaglia della manovra.
Sarà un caso, ma il rendez-vous tra il capo dello Stato e quello della Bce qualcosa ha portato: il tiro della manovra
è stato aggiustato con un deficit a scalare nel triennio che non impatta sull'articolo 92 della Costituzione. Probabilmente, però, uno sforzo ancora insufficiente per far sì che Super Mario scelga il mare. O la montagna.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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