Per i giudici chi ruba deve stare nel Pd

Il tribunale di Roma dà ragione a Lusi, ex tesoriere della Margherita espulso dal partito per aver sottratto i rimborsi

Per i giudici chi ruba deve stare nel Pd

RomaIl Partito democratico finisce alla sbarra e si becca una reprimenda giudiziaria proprio per essersi comportato in maniera «antidemocratica». È questo il senso di quanto stabilito dal Tribunale di Roma che ha dato ragione all'ex senatore Luigi Lusi che si era rivolto alla magistratura per protestare contro il modo in cui era stato «scaricato» dal partito dopo l'inizio dell'inchiesta sull'uso disinvolto da parte dello stesso dei rimborsi elettorali destinati alla Margherita guidata da Francesco Rutelli (poi confluito appunto nel Pd) e che vedeva proprio Lusi come principale accusato.

La fine di quell'inchiesta è nota. Lusi è stato condannato nel maggio dell'anno passato a otto anni per aver sottratto parte dei fondi dei rimborsi elettorali della Margherita di cui è stato tesoriere per dieci anni (dal 2002 al 2012). Il Tribunale civile di Roma ha invece accolto l'istanza presentata dallo stesso ex senatore abruzzese (oggi tornato alla sua professione di avvocato), definendo illegittima la sua espulsione dal Partito democratico. Nel dispositivo il giudice Stefano Cardinali afferma che Lusi, di fatto, è stato espulso dal partito senza che fosse a conoscenza «degli addebiti sui quali la sanzione si fondava» né è stata data all'ex senatore la possibilità di difendersi dalle contestazioni che il partito gli muoveva.

Nel dispositivo di sei pagine il giudice della terza sezione afferma, inoltre, che nei confronti di Lusi non deve essere stabilito alcun risarcimento da parte del Pd. L'ex senatore, infatti, nell'istanza contro la sua espulsione dal partito aveva anche chiesto di essere risarcito per una cifra intorno ai 10mila euro. Il tribunale, su questo punto, «respinge la domanda di risarcimento del danno formulata» dall'ex tesoriere della Margherita e «dichiara compensate per metà tra le parti le spese di giudizio, che liquida per intero in seimila e cinquecento euro per compensi» e «condanna il Partito democratico a rimborsare Lusi la restante metà». Insomma il partito si sarebbe reso colpevole di un errore procedurale. L'espulsione di Lusi sarebbe stata condizionata da un «vizio di forma». Il suo «licenziamento» politico, insomma, sarebbe illegittimo. E in questo senso - almeno sul piano strettamente teorico - andrebbe reintegrato.

Una vicenda, questa, sufficientemente paradossale dove la mano destra (giustizia penale) segue un corso molto distante (se non opposto) rispetto alla mano sinistra (giustizia civile). Lasciando agio, a chi cerca una morale in questa storia, di fare ampio uso di sarcasmo e ironia. I più gentili sulla Rete citano il Jobs Act, che permetterebbe di abolire l'articolo di 18 per tutti ma non per i politici. Altri ovviamente non la prendono tanto a ridere. Soprattutto i militanti del Pd indignati per la sentenza. E soprattutto per il passaggio della stessa dove si sostiene che l'espulsione effettuata senza offrire a Lusi la possibilità di difendersi «deve considerarsi in contrasto con i principi costituzionali che concorrono a determinare la politica nazionale».

I dirigenti nazionali del Partito democratico hanno evitato ogni tipo di dichiarazione. Per loro, però, ha ampiamente parlato sui social network la base.

Ed è stato tutto un coro di proteste: «Adesso sono i giudici a stabilire chi deve stare o non stare in un partito?», gridano alcuni. Altri si chiedono invece: «Siamo ancora in democrazia? Questa sentenza crea un pericoloso precedente».

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