Milano - «Non ce la faccio più a vedere gente sgozzata, teste mozzate e tutto questo sangue. Voglio tornare in Italia, voglio uscire da qui e scappare dalla guerra perché non ho trovato quello che cercavo». A parlare al telefono con la zia Malika, cinque mesi fa, è Monsef el Mkhayar, 22enne marocchino cresciuto a Milano e partito per combattere nelle file dell'Isis. Ma il giovane è davvero un foreign fighter pentito? Il ragazzo pieno di rabbia andato in Siria nel gennaio del 2015, e che da lì via chat minacciava di morte gli amici che non volevano fare come lui e prometteva che se fosse tornato si sarebbe fatto esplodere, ha davvero intenzione di consegnarsi alle autorità italiane e di pagare il suo debito con la giustizia?
È così che Monsef ha detto al telefono alla zia, con cui ha un rapporto molto stretto, e alla madre Fatima, a lui meno vicino. E così hanno testimoniato le due donne al processo davanti alla Corte d'Assise. Il giovane marocchino è accusato di terrorismo internazionale. Rispondendo alle domande del pm Piero Basilone, che ha coordinato le indagini della Digos, Malika ha spiegato di aver sentito il nipote anche molto di recente. «In questi giorni - ha detto - sarebbe voluto tornare, ma non ha potuto perché in Siria è tutto bloccato. Speriamo che rientri tra una settimana». E ancora: «Mi ha detto appena torno, vado dalla polizia a raccontare tutto quello che ho visto. Se mi condannano, mi danno un anno o due. Io nel frattempo vi lascio mia moglie e mia figlia». La donna ha inoltre dichiarato di aver inviato al ragazzo prima 4mila euro «per la moglie», poi 7mila per il viaggio di ritorno e che lui le ha chiesto altri soldi.
Gli inquirenti hanno molti dubbi sulle reali intenzioni di Monsef. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, in Italia il marocchino si era progressivamente radicalizzato. Fino al viaggio verso il Califfato insieme all'amico e coetaneo Tarik Aboulala, poi morto in combattimento. Dalla Siria i due ragazzi hanno tentato di reclutare gli amici rimasti in Italia. Solo un anno fa alla zia che lo implorava perché tornasse, Monsef diceva: «Non torno e se dovessi tornare, mi faccio esplodere. Io non sono un terrorista, sto combattendo per Allah».
Oggi forse dice di voler «scappare dalla guerra» solo per farsi mandare altri soldi. O forse è davvero stanco della morte in nome dell'islam. A quanto risulta agli inquirenti, davvero Monsef ha detto ai parenti di non reggere più alla vista di tanti fatti di sangue e violenza. Perciò i famigliari, che pure non sono benestanti, stanno facendo di tutto per mandargli il denaro e aiutarlo a rientrare. Hanno già raccolto con una colletta più di 10mila euro. Ma il ragazzo sta tornando? I fatti più rilevanti che renderebbero fondata questa ipotesi sono proprio il matrimonio e la nascita della figlia, che ha pochi mesi. Elementi che avrebbero cambiato la visione del futuro del giovane foreign fighter. Ma di sicuro fuggire dal Califfato portando con sé una moglie siriana non è facile comunque richiede molti soldi. E di sicuro il marocchino in Siria si è addestrato, ha combattuto per l'Isis ed è anche rimasto ferito. Alla prossima udienza, il 13 aprile, Basilone ascolterà altre persone che hanno sentito Monsef, anche di recente. Amici che lui ha minacciato, se non si fossero arruolati. Dopo il pm farà la richiesta di condanna. Chissà se l'imputato vorrà ancora tornare.
La famiglia di Monsef ci spera.
È sempre stata contraria alla scelta del giovane e sta vivendo mesi di angoscia e sofferenza. I parenti hanno collaborato con la polizia e si augurano che il 22enne si penta davvero, sconti la sua pena in Italia e poi pensi solo a sua figlia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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