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Gli intellettuali che rosicano per il successo di Donald Trump

Gli intellettuali si rifugiano nei luoghi comuni e nel moralismo, senza curiosità

Gli intellettuali che rosicano per il successo di Donald Trump

Ci risiamo. Sul primo fenomeno nuovo gli intellettuali di mezzo mondo vomitano tutti i rottami del pensiero automatico. È il caso della candidatura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e delle menti considerate da certe accademie come le più brillanti, quando invece a brillare è il moralismo di cui sono intrise. Ma Donald Trump è un fiume in piena. Non lo si fermerà - ammesso sia giusto farlo - con le solite piccole dighe che gli intellettuali buonisti tirano su sempre più sbrigativamente, ammassando sacchetti di sabbia prelevata dalle spiagge del perbenismo.

Il fervore di Mario Vargas Llosa (e di chi lo segue) nel semplificare il tumultuoso Trump e ciò che rappresenta per il nostro tempo privo di coraggio e interessanti contraddizioni, è mosso dall'incapacità di attendere, studiare, osservare con distacco e un auspicabile senso di ironia ciò che Trump potrebbe significare al di là dei meccanismi più o meno condivisibili della comunicazione globale ai quali uno scrittore non dovrebbe sottostare, e che anzi dovrebbe disarticolare con un uso della parola meno istintivo. Non vedere in Trump nient'altro che un aspirante politico è segno di scarsa lungimiranza. Ma più grave è la distruzione dall'interno del ruolo dello scrittore. In Italia ci si domanda spesso che fine abbiano fatto l'impegno e la capacità critica (quella cioè di saper distinguere) con cui guidare l'opinione pubblica attraverso strumenti sensibili come quelli forniti dalla letteratura. È presto detto. La maggioranza degli scrittori non fa che comprimerli in un'unica arma da taglio che affinché risulti affilata è decimata nella sua complessità d'origine. Certi strumenti non sono che il presupposto del lavoro intellettuale, il dazio che un autore deve pagare solo in prima battuta dimostrando di averli acquisiti e dei quali invero non resta più traccia nelle opere e negli articoli che scrivono.

Il punto è che l'uso che si fa oggi del termine «impegno» è di chiara identificazione politica. Uno scrittore, senza alcun freno a partire dagli anni Sessanta, sembrerebbe potersi impegnare in un solo modo e un solo significato di lotta. Ma uno scrittore dovrebbe impegnarsi soltanto a scrivere. L'uomo svolgerà come può tutte le funzioni di piacere e rimedierà a quelle di necessità, ma l'artista deve seguire le regole di quel gioco serio e pericoloso che è il dissociarsi da se stesso, uscendo dalla condotta di vita comune. La vita democratica. La più grande conquista da parte delle popolazioni civili organizzate, cioè quanto di più incivile per uno spirito votato alla conoscenza, alla ricerca della verità progressiva.

Uno scrittore dovrebbe avere in odio la democrazia, a meno che non abbia a cuore i fenomeni temporanei più di quelli universali. La democrazia, seppure necessaria, non è necessariamente una bella cosa. Con l'alibi del bene comune esercita la quieta violenza del più forte, che è la Maggioranza. Nascondendosi dietro questa, Vargas Llosa fa notare nel suo articolo che «varie emittenti tv, tra cui Univision e Televisa, hanno rotto i rapporti con Trump, subito seguite dai centri commerciali Macy's, dell'imprenditore Carlos Slim, da molte pubblicazioni e da un gran numero di artisti, attori cinematografici, cantanti, scrittori». La democrazia, nata dal taglio delle teste, pretende un'uguaglianza nella statura degli individui, e riconosce a ciascuno la particolarità del carattere solo quando è comodo denigrarlo. Chissà perché soltanto al mondo dello spettacolo è relegata una possibilità contraria, mentre in politica non è etico. Ma non è già poco etico questo?

E allora, come fa uno scrittore a non innamorarsi della natura di Trump? Così volumetrica, possente, sana nel senso di intera giacché possiede tutte le caratteristiche della popolazione di cui aspira a essere presidente? Non a caso già nel 2006 Kurt Andersen scrisse di lui che è «l'unico newyorkese bianco a condurre uno stile di vita tanto esagerato quanto quello del più irriverente e appariscente dei rapper». Se anche si volessero accettare queste parole come critica al personaggio, perché poi non considerare umilmente che sia proprio il rapper nero che gli vive dentro a potersi pronunciare «liberamente» sulle minoranze ispaniche? Forse è un'osservazione troppo sottile per Vargas Llosa. Preferisce darci una lezione di storia senza precedenti: «Gli Stati Uniti sono la prova migliore del fatto che una società multirazziale, multiculturale e multireligiosa possa esistere, svilupparsi e progredire a ritmo sostenuto». Certo per lui le minoranze non sono in grado di difendersi da sole. Occorre sempre che qualcuno, non invitato, si schieri con gli operai, con i gay, con gli immigrati, giungendo fino a esserne portavoce perché detiene lui l'uso esclusivo della parola e di tutti i significati.

Guardando a un ben diverso modello, se oggi fosse vivo, su quale candidato scriverebbe qualcosa di illuminante David Foster Wallace, che da simbolo dei giovani progressisti qual era stimò George W. Bush come un bravo presidente? E Andy Warhol chi immortalerebbe in policromia? Certamente non Hillary Clinton, che ha il solo vantaggio di essere donna in un mondo di finti femministi ma che invero è un signorotto senza alcuna idea; tanto meno gli altri, incapaci di guerreggiare almeno sul piano della comunicazione dove invece Trump, anche arrivando a scusarsi per certe dichiarazioni, ha già dimostrato di essere un macinatore. È evidente che Trump impone a noi tutti uno sforzo di linguaggio. Uno scrittore dovrebbe ringraziarlo per questo, senza timore di confondersi. Ci dona immagini e visioni nuove, potenziali romanzi-mondo, racconti che già frullano nel cuore e una nuova epica.

Può anche darsi che la sua sia un'estetica fuori controllo, e dunque un'etica ancora tutta da capire, ma se anche fosse, non è stupendo poterla studiare per primi, sognarla persino, accostandoci alla sua novità con questo approccio speciale di cui siamo capaci? Certi articoli, come quello di Vargas Llosa uscito sulla Repubblica del 12 agosto scorso, sono tentativi di far nascere la tragedia. Uno scrittore ne ha un bisogno disperato perché è necessaria per scrivere opere memorabili. Ma serve ben altro per farla nascere. L'indignazione non basta, fa bene al sangue dell'uomo ma nuoce a quello dell'artista. Uno scrittore dovrebbe essere un osservatore della storia. Osservare è la sua azione e il suo modo di costruirla. Che siano i lettori a pensarlo edificante.

Se si è illuso di esserlo anche un solo giorno nella vita, dovrebbe uscire dal seminato ed entrare nel suo vero campo di lavoro, che è la follia.

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