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Gli intellettuali divisi tra accuse all'islam e colpe dell'Occidente

Per i conservatori le stragi non sono responsabilità del mondo libero. Ma per i progressisti sono il frutto dele nostre ipocrisie

Gli intellettuali divisi tra accuse all'islam e colpe dell'Occidente

Non si può dire che in Francia manchi il dibattito delle idee. Il massacro del 13 novembre ha riacceso il confronto su islam, immigrazione, Europa. Il filosofo Alain Finkielkraut può essere preso come esempio della posizione prevalente in campo conservatore. In una intervista rilasciata a Le Figaro, e ripresa in Italia da la Repubblica, ha fotografato la situazione con parole nette. Islam e responsabilità dell'Occidente: «L'islamismo non è tutto l'islam. Tuttavia, esso non è neppure un fenomeno marginale o una creazione dell'Occidente. Noi non abbiamo generato questo mostro con le nostre politiche neocoloniali e la nostra discriminazione. Non stiamo pagando per i nostri crimini. L'obbligo della jihad, come spiega Bernard Lewis, poggia sull'universalità della rivelazione islamica. La jihad non è contraccolpo, bensì progetto di conquista. L'Occidente deve liberarsi dalla convinzione megalomane di dettare sempre lui le danze». Europa: «Con l'Unione abbiamo voluto instaurare il regno della pace perpetua. Il nostro sogno elvetico ora si è frantumato sulla realtà dell'islamismo». Sull'epoca: «Vivremo pure in democrazia, ma il totalitarismo della Storia è ormai tra noi. La Storia ci priva del nostro diritto alla spensieratezza». Nel campo progressista, si segnala la posizione dell'economista Thomas Piketty, espressa in un articolo su Le Monde (tradotto da la Repubblica): «La risposta al terrorismo dev'essere in parte la garanzia della sicurezza.

Colpire Daesh, arrestare i suoi adepti. Ma dobbiamo anche interrogarci sulle condizioni politiche di queste violenze, sulle umiliazioni e ingiustizie che in Medio Oriente hanno determinato l'importante sostegno di cui beneficia quel movimento, e in Europa suscitano oggi vocazioni sanguinarie». Segue un affondo sulla ipocrisia dei politici occidentali: «Nelle monarchie petrolifere, una parte sproporzionata di questa manna (i guadagni derivati dalla vendita del petrolio, ndr) è accaparrata da una minoranza, mentre ampie fasce della popolazione sono tenute in uno stato di semi-schiavitù. Ma proprio questi regimi godono del sostegno delle potenze occidentali, ben liete di ottenere qualche briciola per finanziare i propri club di calcio, o di vendere armi. Non c'è dunque da sorprendersi se le nostre lezioni di democrazia sociale non hanno molta presa sui giovani mediorientali». Guerra islamica di conquista da una parte (Finkielkraut). Il terrorismo come reazione alle diseguaglianze sociali dall'altra (Piketty). Non mancano posizioni intermedie. Basta sfogliare l'inserto di Le Monde in cui domenica scorsa hanno preso la parola in molti, a partire dall'ospite tedesco, il filosofo Jürgen Habermas, in passato tra i principali teorici del multiculturalismo con l'inglese Charles Taylor. Habermas riconduce la mancata modernizzazione del Medio Oriente ad alcuni aspetti della cultura araba. Ma sottolinea i fallimenti (militari, politici ed economici) dell'Occidente. L'analisi si concentra sul fondamentalismo europeo. Le giovani generazioni, tagliate fuori da tutto, «si radicalizzano al fine di riguadagnare l'amor proprio» perduto a causa del mancato «riconoscimento» (parola chiave del multiculturalismo) della propria identità.

La sospensione di fatto di Schengen riapre anche un vecchio argomento di discussione: l'abolizione delle frontiere, tema toccato in passato da Regis Debray e oggi dall'americano Mark Lilla, molto noto in Francia.

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