Contrordine compagni: il Jobs Act ricambia (sia pure solo un pochino, riallargando le maglie dell'articolo 18 ai licenziamenti disciplinari) e ora marcerà di gran carriera alla Camera, prima della legge di Stabilità. Per poi ripassare altrettanto in fretta al Senato, sempre con la fiducia, ed essere approvato - come il premier aveva annunciato in Direzione mercoledì, e come ha promesso in Europa - per l'inizio del prossimo anno. «Il primo gennaio entreranno in vigore le nuove regole sul lavoro: è un grandissimo passo in avanti», annuncia soddisfatto il premier da Bucarest, dove ieri ha fatto tappa prima di volare in Australia per il G20 di Brisbane.
Con la mossa a sorpresa di ieri sul Jobs Act, Matteo Renzi ha ottenuto due risultati che lo soddisfano assai: ha frantumato la minoranza Pd, isolando la sinistra radical; e ha sgonfiato come un palloncino bucato lo sciopero generale della sua acerrima nemica Susanna Camusso. Se questo gli costa un po' di urla di Ncd e qualche telefonata in più con Angelino Alfano, poco importa: i centristi se ne faranno una ragione ed è difficile - pensano ragionevolmente a Palazzo Chigi - che facciano saltare governo e legislatura per questo, tanto più che devono ancora portare a casa quella soglia del 3% nell'Italicum che è la loro speranza di sopravvivenza. Nel Pd per altro giurano che Ncd era stato informato, prima di rendere pubblico l'accordo interno al Pd annunciato ieri. I centristi hanno chiesto a gran voce un vertice, Renzi ha passato la pratica a Lorenzo Lotti e a Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, che ieri sera si sono incontrati a Palazzo Chigi con i capigruppo Ncd.
Del resto, a sentire gli stessi renziani, nel merito del Jobs Act cambierà poco: ci sarà sì un riferimento ai famosi licenziamenti disciplinari, ma ogni specificazione sarà demandata ai decreti legislativi del governo. Tanto che Gianni Cuperlo, uno di quelli che probabilmente voterà comunque no (del resto Massimo D'Alema ormai è su una linea di totale rottura con il premier, fino ad evocare con i suoi la necessità di andarsene dal Pd renziano) avanza il sospetto che la mediazione rischi di essere peggiorativa: «Continuo a pensare che escludere completamente la possibilità di reintegro per i licenziamenti economici individuali sia molto rischioso: apre la strada alla possibilità che non esista più il licenziamento disciplinare».
La «svolta» è stata cucinata a tarda notte mercoledì, al termine della Direzione del Pd al Nazareno: con Renzi sono rimasti il presidente del partito Matteo Orfini, i capigruppo Luigi Zanda e Roberto Speranza, referente della minoranza «dialogante» e il ministro Maria Elena Boschi. Il presidente del Consiglio aveva appena aperto, in Direzione, il varco ad una mediazione: in cambio di tempi strettissimi e certi, si poteva apportare qualche variazione al testo. Dando così soddisfazione a tutta quella parte della sinistra Ds che non aspettava altro che un appiglio per poter affermare di aver ottenuto dei risultati dal governo, e per chiudere la partita dell'articolo 18. Altrimenti, rischiava di prevalere l'ala estrema, quella che già minacciava (con Fassina, Boccia, D'Attorre e il solito Civati) di non votare neppure la fiducia, e di crearsi uno strappo violento che sarebbe stato cavalcato nelle piazze dalla Cgil di Camusso. La mossa di ieri serve a depotenziare tutto ciò, e a rinsaldare il rapporto con quell'ala bersaniana dei gruppi parlamentari che, come spiega un renziano, «ha come principale timore le elezioni anticipate, e pensa che si debba collaborare con Renzi, per condizionarlo, ma consentendogli di andare avanti».
Anche perché l'Italicum modificato rischia di essere una trappola per loro, come ammette un deputato della sinistra: «Abbiamo tanto rotto le scatole per le preferenze, e ora che quello ce le ha date noi come le prendiamo?».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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