L'America è una polveriera Altro nero ucciso a Houston

Scontri e proteste: un centinaio di arresti. Obama rientra in anticipo negli Stati Uniti. E Trump ora fa il pompiere

Luciano Gulli

Quanti sono stati i delinquenti bianchi che ieri hanno passato un guaio con la polizia americana, o sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco? Le agenzie non lo dicono. Se è accaduto non fa notizia. Fa invece notizia, da sempre, il «povero negro» accoppato dal cattivo poliziotto irlandese, violento e bastardo per principio. Anche se il «povero negro» era, a sua volta, un pezzo di malacarne violento e bastardo. É un pregiudizio quello che il nero sia «sempre» un povero innocente, vittima della società, del razzismo e del pregiudizio dei bianchi - vecchio di almeno settant'anni, dai tempi delle lotte per i diritti civili di Martin Luther King e Malcolm X. Anche se è altrettanto vero e centinaia di film di genere sono lì a dimostrarlo - che la polizia americana non ha mai fatto nulla per allontanare da sé un altro storico e mica mal fondato pregiudizio: quello di essere violenta, corrotta, e di agire spesso «out of law», fuori dalle regole.

Troppi neri ammazzati, per non destare allarme nelle istituzioni (lo stesso presidente Obama, tornato a tuonare contro la facilità con cui si può andare al cinema con un mitragliatore in spalla, ha deciso di anticipare il suo rientro negli Usa dall'Europa) e in un'opinione pubblica che si domanda ormai se dietro ogni «tessera e distintivo» non vi sia un pericoloso pistolero che ha visto troppi film di Quentin Tarantino.

Ieri, e non ce n'era bisogno, un altro nero ammazzato. A Houston, Texas. L'uomo era armato, e avrebbe puntato la pistola contro gli agenti. Anche qui, si vedrà, giacchè i poliziotti indossavano la telecamerina di cui da qualche tempo sono dotati, proprio per documentare il loro operato.

Certo quest'ultimo di Houston è un episodio che rischia di riattizzare le fiamme in un Paese in cui la rabbia, il desiderio di vendetta, la convinzione di essere vittime di un «sistema sociale» ancora sotterraneamente razzista, è altissima. Fiamme innescate dalle violente proteste culminate a Dallas con l'uccisione di cinque poliziotti da parte di un cecchin o - seguite all'uccisione a freddo dei due afroamericani fulminati dalla polizia in Minnesota e in Louisiana nei giorni scorsi.

Scontri con la polizia e 74 arresti si sono registrati ieri a Rochester (New York), mentre ai quattro angoli degli States, dalla Louisiana (in serata la notizia di 31 arresti a Baton Rouge per le proteste) a Washington, da San Francisco a Baltimora, da Detroit a Sacramento, la gente è scesa in strada. Sassaiole, lacrimogeni, botte. E pallottole. Un uomo in Tennessee ha aperto il fuoco l'altro ieri in un hotel e per strada, uccidendo una donna e ferendo un agente della polizia. Insomma, una situazione (altri agenti feriti in due agguati in Missouri e in Georgia) che rischia di sfuggire di mano a chi dovrebbe garantire l'ordine e la sicurezza dei cittadini.

Sulla strage di Dallas, se non altro, non ci sono dietrologie di sorta. A sparare agli agenti bianchi, per vendetta, è stato il venticinquenne nero Micah Xavier Johnson, ex riservista dell'esercito poi ucciso da un robot della polizia carico di esplosivo.

Dalla travagliata scena americana spunta anche il ciuffo ossigenato di

Donald Trump, che ha chiesto di poter parlare agli agenti newyorchesi, beccandosi il rifiuto del capo della Polizia di Manhattan, che ha cose più serie a cui pensare che regalare una «photo opportunity» al candidato repubblicano.

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