L'ex talebano di Guantanamo che ha dichiarato guerra al Califfo

L'avventura di Haji Ghalib è avvincente come un film. Ma nel suo caso è tutto vero

L'ex talebano di Guantanamo che ha dichiarato guerra al Califfo

Sembra un copione per un film di Clint Eastwood: imprigionato per quattro anni a Guantanamo, esce e diventa un formidabile cacciatore di jihadisti a fianco degli americani, suoi ex carcerieri. Com'è possibile? La risposta è nella foto che lo guarda dalla scrivania, suo nipotino di due anni ammazzato dai tagliagole islamisti insieme ad altri diciotto famigliari (l'ultimo questo mese, decapitato dall'Isis): «Quando la vedo mi scoppia il cuore, ho ancora più voglia di combattere». Hajji Ghalib ha cinquantaquattro anni ma un volto solcato dalle rughe che ne dimostra venti di più, lo sguardo duro di chi è passato da una guerra all'altra («Non ho bei ricordi della vita, ad essere onesti»). Come sia finito nel famigerato campo di prigionia americano «è una storia sconcertante», scrive il New York Times. Dopo aver combattuto contro i sovietici e poi contro i radicalisti islamici, e dopo essere diventato un ufficiale della polizia nel nuovo governo afgano, nel 2003 viene arrestato dagli americani sulla base di prove molto fragili (dell'esplosivo ritrovato vicino al suo compound, alcune lettere dalla dubbia autenticità che lo collegavano ai terroristi) e spedito nella prigione di Guantanamo. Ghalib racconta ai militari americani di aver combattuto, i talebani, e di aver aiutato le truppe Usa contro Al Qaida nella battaglia a Tora Bora, sulle montagne dell'Afghanistan. I dossier dell'intelligence americana riconoscono che il detenuto «non può essere considerato un membro di Al Qaida», anche se viene schedato come un «medium risk», un potenziale pericolo, per le sue grandi doti militari. Malgrado i dubbi Ghalib resta a Guantanamo fino al 2007, due anni in più rispetto al suo compagno di carcere ed ex amico con cui in cella discute di religione e politica, Abdul Rahim Dost, che una volta tornato in Afghanistan diventa - ed è attualmente - uno dei capi dell'Isis, le cui bandiere nere sventolano fino a lì.

Tornato in Afghanistan si rimette al lavoro, guida la ricostruzione nella sua provincia e per questo, perchè collabora col governo sostenuto dagli Usa, viene preso di mira dai jihadisti che iniziano a minacciarlo. La «tortura piscologica» subita dai militari Usa a Guantanamo non sposta Ghalib dalla convinzione radicata in lui: «Il dolore che il mio Paese e il mio popolo stanno soffrendo, questa per me è la cosa più importante. Noi siamo afgani, e dobbiamo difendere l'Afghanistan». Difenderlo dai terroristi. Non cerca la sua vendetta dagli americani, che pure lo hanno detenuto ingiustamente per quattro anni, ma dai talebani e dagli assassini del Califfato. E diventa il loro incubo in Afghanistan.Il nuovo presidente afgano Karzai gli affida un ruolo importante e rischioso: governatore di Bati Kot, una regione infestata dai jihadisti al confine col Pakistan. Ghalib organizza rapidamente una forza di polizia per dare la caccia all'Isis. «Appena sono arrivato ho iniziato a distruggerli» racconta, ricordando una strana telefonata ricevuta da un comandante talebano, che gli promette, in cambio della resa, di far giustiziare chi ha fatto fuori i suoi famigliari. La sua risposta è degna di un western: «Gli ho detto che la nostra guerra era appena iniziata». Le operazioni sul campo le comanda lui stesso, con a fianco il figlio. Insieme, questa estate, hanno guidato un'azione contro una milizia dell'Isis, più a sud, dove i tagliagole hanno torturato gli anziani dei villaggi chiudendoli in un campo minato e riprendendo con la videocamera le esplosioni. La sua squadra è stata respinta dal fuoco ma Ghalib e il figlio sono rimasti lì, ad affrontare quindici miliziani. «Siamo riusciti a colpirne diversi» racconta con la flemma del combattente.

Non si stupirebbe di ritrovare alla testa dei jihadisti il suo ex compagno d Guantanamo, Abdul Rahim. «Non lo risparmierei se me lo trovassi davanti, ha ucciso civili, innocenti, bambini» dice al New York Times. Per poi aggiungere: «È veramente ironico che gli americani l'abbiano liberato due anni prima di me».

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