Milano - Due rampe di scale: vaste come un abisso. Al terzo piano del palazzo di giustizia ieri si incorona il nuovo procuratore della Repubblica: e a rendere omaggio a Francesco Greco ci sono generali e prefetti, il sindaco Pisapia e soprattutto il vecchio Borrelli, venuto a investire come suo erede legittimo l'ex ragazzo del pool. Al piano di sopra, lo sterminato corridoio della Procura è deserto, i pm sono quasi tutti ad applaudire Greco. Un solo ufficio, la porta aperta, i ragazzi della scorta davanti. Dentro, una donna che fuma. È Ilda Boccassini, procuratore aggiunto, sconfitta da Greco nella corsa al vertice.
Il 30 maggio, quando il Csm scelse Greco per succedere a Edmondo Bruti Liberati, si era sparsa la voce che Ilda si preparasse a una iniziativa clamorosa: una dichiarazione pubblica, forse addirittura le dimissioni. Le dimissioni non sono arrivate. Ma il gesto clamoroso, quello sì. Perché l'assenza di ieri della Boccassini dalla cerimonia solenne di insediamento è talmente plateale da segnare l'atto finale di rottura tra la dottoressa e la sua categoria. Una categoria che non ha mai davvero amato, e da cui per oltre un quarto di secolo si è sentita incompresa. Fino al punto di considerare un'onta inaccettabile la bocciatura che ora le ha inflitto al Csm: resa tanto indigeribile dallo scorrere dell'anagrafe, che rendeva questa occasione l'ultima chance di aspirare alla guida di un ufficio. L'anno prossimo decadrà dalla carica di procuratore aggiunto. A dicembre del 2019, compiuti i settant'anni, andrà in pensione da soldato semplice.
Se e come la Boccassini possa dare a Greco la colpa del suo insuccesso, è un mistero che attiene alla sfera degli altalenanti rapporti personali tra questi due giudici, cresciuti entrambi in Magistratura democratica ma dissimili per formazione e percorsi. Più facile raccontare come si sia consumata nel corso degli anni la rottura tra la Boccassini e la magistratura intesa come corporazione. Una casta con cui si è scontrata più volte, a partire dagli epici scontri con Borrelli e con Armando Spataro, uscendone quasi sempre soccombente, ma denunciandone ostinatamente l'ipocrisia di fondo. A partire dall'ipocrisia più grave di tutti, quella che secondo lei accompagnò la fine di Giovanni Falcone. E non è un caso che in queste due settimane trascorse tra la nomina e l'insediamento di Greco, la Boccassini sia uscita allo scoperto solo con un articolo su Repubblica in cui sembrava parlasse d'altro (Napoli, Saviano, Gomorra) e invece tornava a puntare il dito sulla casta, ricordando «come Giovanni Falcone sia stato osteggiato in vita, invidiato per la sua intelligenza ed emarginato dalla magistratura che lo considerava e lo considera un corpo estraneo».
In questi anni, nonostante il suo disprezzo ostentato per la categoria, Ilda Boccassini ha sempre avuto poteri, uomini, mezzi per le sue inchieste. Ma sempre più per timore che per simpatia o colleganza vera. I pochi magistrati che, all'interno del pool antimafia di Milano, hanno osato contrastare i suoi diktat hanno dovuto rassegnarsi ad andare via.
Lo stesso Bruti Liberati, che pure le rimase al fianco nell'ultima sfortunata offensiva contro Silvio Berlusconi, ovvero il caso Ruby, lo fece forse per il banale motivo che non aveva altra scelta, a meno di non finire in una delle leggendarie invettive di Ilda («la mia famiglia non accetterà scuse postume», ebbe a scrivere nel 1999 nel pieno di una polemica). E si può scommettere che anche ieri, sola nello sterminato corridoio, Ilda Boccassini sia convinta di essere dalla parte della ragione.
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