«La lotta contro l'Occidente, la necessità di assoggettare la società ai valori dell'islam sono il leit motiv di molte prediche salafite nelle moschee, ma in Francia assistiamo a un dibattito paradossale sui simboli religiosi». L'orientalista Gilles Kepel, tra i primi a riflettere sull'islamismo radicale, spiega al Giornale gli «errori» della Parigi post-giacobina. Macron parla del «dovere di vigilanza» da parte dei cittadini. «Ma è un lavoro da professionisti - dice Kepel - E il velo in strada, anche se a me non piace, è un diritto».
Oggi scuole islamiche salafite o vicine ai Fratelli musulmani non hanno bisogno di soldi pubblici: i denari vengono da un'altra parte, è questo il problema?
«Negli anni 2015 e 2017 la repressione era focalizzata sul bersaglio, il terrorista. Come si può catturare prima che agisca per incarceralo. Ora siamo in periodo post-Isis, dove per esempio i jihadisti in carcere hanno capito che il modello Daesh non funziona più ma hanno interesse a costruire un neo jihadismo dell'ambiente in cui si vive, più che far parte di un'organizzazione che da Raqqa si estendeva in Europa».
Macron dice che il velo non è affar suo, dovrebbe esserlo?
«No, perché il problema del presidente è la predicazione, che crea una rottura culturale nella società. Questa nuova fase jihadista, la quarta fase, è di rifiuto delle leggi della democrazia. Ecco cosa porta oggi all'atto terrorista. Gli strumenti della repressione statale non sono in grado di capire il fenomeno».
La Francia ha tentato una riabilitazione di ex jihadisti?
«Un fallimento totale. Dobbiamo parlare di islamizzazione della radicalizzazione. C'è chi pensa che sia un problema di relazioni personali: hanno perfino tentato di introdurre animali da compagnia nei penitenziari, a cui fare carezza. Una follia».
È più corretto parlare di territori perduti della Repubblica o conquistati dall'islamismo?
«Emergono compromessi di alcuni sindaci che si alleano con tale gruppo che gli promette 200 voti. Ma in cambio vogliono l'apertura di una moschea o far venire tale imam. È il prossimo tema da affrontare perché abbiamo elezioni comunali a marzo. Anche in Italia».
Può esserci una connivenza tra politica e islam radicale?
«Sì, assolutamente. È la prima volta che arriva nel dibattito pubblico. Dopo l'attacco alla prefettura si è scoperta una concatenazione».
Come se ne esce?
«La società deve adattarsi per non mettersi a rischio. Nel 2012 quando Mohammed Merah ha ucciso, le autorità l'hanno dichiarato lupo solitario ma lui era già nella proto-rete di Daesh. Lo abbiamo spiegato, ma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire».
È uscito il suo libro «Uscire dal caos». Prossima sfida?
«Capire questa quarta fase del jihadismo, che inizia con l'attentato alla prefettura di Parigi. È un jihadismo d'ambiente, di enclave. Mikael Harpon, che il 3 ottobre ha ucciso lì, era sordo. Nelle associazioni di sordomuti esiste la predicazione jihadista da parte dei salafiti. Spiegano che per superare le difficoltà la soluzione può essere il jihad».
In Francia questi killer sono definiti squilibrati. Un problema?
«Certo. Una scuola di pensiero dice: ieri c'erano le Brigate rosse, oggi verdi ma bisogna qualificare quest'ideologia. Ammazzare una persona perché è un borghese o perché è un empio non è la stessa cosa.
Per capire bisogna avere una cultura dell'islamismo politico contemporaneo. Forse il nostro culto dell'alta funzione pubblica onnipotente tende all'autodifesa perché non conosce l'arabo e non studia i testi. Ma abbiamo già pagato un prezzo altissimo per questo difetto».
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