C'erano già state in passato, buone avvisaglie e pare che finalmente, anche nel nostro Paese, cominci a intravedersi la possibilità giuridica che gli animali d'affezione siano considerati esseri senzienti e coscienti, la cui perdita rappresenta un danno esistenziale e morale per il proprietario. Mi sembra già di udire i moccoli e le imprecazioni dello zooclasta Cruciani che, nel suo baraccone radiofonico la Zanzara , non perde occasione per mostrare il suo lato di totale insensibilità nei confronti di qualunque forma di vita diversa dall'uomo. Temo che se ne dovrà fare una ragione.
La Corte d'Appello di Roma ha infatti scritto quanto segue: «Non sembra dubitabile che la perdita di un animale d'affezione, specie nel caso in cui il rapporto sia radicato da tempo, comporti un pregiudizio non soltanto alla sfera emotivo-interiore, ma sia suscettibile di modificare e alterare le abitudini di vista e gli assetti relazioni del danneggiato». Questa, la motivazione della sentenza attraverso la quale è stato condannato al risarcimento del danno morale e patrimoniale, un veterinario che, a causa della sua condotta professionalmente inadeguata, aveva causato la morte di un cane. Un classico caso dunque di malasanità veterinaria, un osso piantato nell'esofago, la mancanza di banali esami di routine, una diagnosi sbagliata e la conseguente morte del cane. Fino a oggi queste situazioni, purtroppo non così rare, vista la quasi totale assenza di regole nel campo della medicina veterinaria che si occupa di animali d'affezione, venivano troppo spesso trattate alla stregua della vendita di un chilo di mele marce. La magistratura però, per fortuna, sta cambiando atteggiamento.
Facciamo un piccolo tuffo nel passato. Siamo a Siena dove tra Caterina B., una signora matura, e il suo cucciolo di Yorkshire s'instaura un rapporto che va ben oltre l'affetto per un cane. La donna, che vive sola, passa la maggior parte della giornata con il suo «Yorky» e, grazie a lui, ritrova una voglia di vivere, persa per recenti gravi traversie. La storia tra i due purtroppo s'interrompe nel '97, quando lo Yorkshire viene aggredito da un Pastore Tedesco e resta ucciso. Caterina ricade in un grave stato di depressione e, una volta ripresa un po' di energia, si rivolge al giudice di pace, chiedendo un risarcimento per danni morali alla proprietaria del cane aggressore. Per il magistrato la morte dell'animale ha provocato alla signora «un danno alla sua personalità: la riduzione della capacità e della qualità di vita, tanto da essersi dovuta sottoporre a terapia psicologica». La padrona del Pastore Tedesco, viene così condannata al risarcimento dei danni morali per la somma di un milione e mezzo di lire. Il ricorso in Cassazione non vale ad annullare la sentenza, anzi, la suprema corte conferma, con sentenza del 3 agosto 2001, il giudizio a favore del risarcimento dei danni esistenziali.
Nei giorni scorsi la Corte d'Appello di Roma, per quanto riguarda il cane morto per un errore diagnostico, ha scritto che «nel caso di un cane da compagnia è fin troppo noto come le abitudini dell'animale influiscano sulle abitudini del padrone e come il legame che si instaura sia di una intensità particolare, sicché affermare che la sua perdita sia futile ( ) non sembra più rispondente ad una lettura contemporanea delle abitudini sociali e dei relativi valori».
Un sentito grazie all'Enpa di Roma il cui ufficio legale ha seguito brillantemente la causa ottenendo pieno successo.
Le righe della sentenza
che definisco «non dubitale» il danno subìto dalla morte del proprio cane
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