Un tempo era la fabbrica del mondo. Poi, a forza di vendere i propri prodotti nei Cinque Continenti e di incassare, la Cina del mondo è diventata anche la banca. Secondo il Fondo Monetario ha accumulato riserve in valuta estera che superano i 3 trilioni (3mila miliardi) di dollari. Secondi, a distanza notevole sono i giapponesi (1,2 trilioni), mentre svizzeri e sauditi, con 800 e 500 miliardi rispettivamente, fanno quasi la figura dei poveretti.
La potenza di fuoco dell'Impero di Mezzo è tale che anche gli Stati Uniti devono tenerne conto. Pechino è il primo investitore straniero in titoli di Stato americani: ne ha in cassa per più di un trilione, che sembrano a prima vista pochi, se confrontati con i 22 complessivi del debito pubblico Usa. Eppure, giostrando vendite e acquisti, i cinesi hanno la possibilità di incidere sull'andamento dei tassi e soprattutto sul rapporto di cambio tra le due valute, dollaro e yuan. A completare il quadro è un fatto che può apparire sorprendente. Per ora, i dazi introdotti da Trump hanno avuto, forse per il fatto che gli importatori Usa hanno deciso di anticipare gli acquisti, un solo effetto: il boom del deficit commerciale americano verso la Cina. Nel 2018 ha toccato il livello record di 419 miliardi. Il che vuol dire che gli uomini di Xi Jinpin hanno un altro gruzzoletto da investire (in buona parte resterà in dollari, moneta rifugio per eccellenza).
Vista la situazione non c'è da meravigliarsi che nell'agosto scorso, quando il ministro delle Finanze Tria andò a Pechino per una molto pubblicizzata visita ufficiale, il pensiero nemmeno troppo nascosto di qualche neofita del governo giallo-verde fosse quello di convincere i leader comunisti a fare incetta di Bot e Cct. E il tema potrebbe tornare di attualità con la prossima legge di bilancio, che si annuncia tutta lacrime e sangue.
Naturalmente, come diceva l'economista Milton Friedman, non esistono pasti gratis; l'eventuale sostegno finanziario di Pechino, così come gli investimenti per la nuova Via della Seta, hanno anche loro un costo. Ne sa qualcosa la Grecia: al culmine della grande crisi i cinesi arrivarono dalle parti di Atene con le valige cariche di soldi. Solo per il porto del Pireo (uno dei terminali scelti per il traffico merci dall'Asia), il colosso statale Cosco ha investito oltre 500 milioni di euro. Una boccata d'ossigeno. Ma da quel momento il governo di Alexis Tsipras è diventato l'ambasciatore di Xi Jinpin a Bruxelles.
Con un paio di veti ha bloccato le iniziative per il monitoraggio degli investimenti cinesi e contro le ripetute violazioni dei diritti umani. Diciamo la verità, ha commentato Costas Douzinas, dello stesso partito di Tsipras e presidente della Commissione esteri del Parlamento: «È colonialismo, ma senza le cannoniere».
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