L'Ue piccona i muri: Ungheria e Slovacchia aprano ai profughi

Bocciato il ricorso contro il ricollocamento a Est dei migranti da Italia e Grecia: una vittoria

Niente muri per Ungheria e Slovacchia. La Corte Europea ha bocciato il ricorso di Budapest e Bratislava contro la decisione del Consiglio di ricollocare in tutta Europa i rifugiati arrivati in Italia e in Grecia. Tutto questo mentre Ventotto stanno faticosamente cercando un accordo sul nuovo diritto d'asilo, che riveda la regola secondo la quale responsabile è il paese di primo sbarco.

È una vittoria del governo di Roma e un segnale verso chi pensa che il Mediterraneo sia terra di nessuno, con Italia e Grecia ridotte a campi profughi alle porte dell'Europa. Come sottolinea il presidente Mattarella: «Non era una posizione dell'Italia o della Grecia, ma dell'Europa. La Corte ha affermato che esiste un dovere e un vincolo di solidarietà».

Qualcosa forse sta cambiando. Ne è convinto Dimitris Avramopoulos, il commissario europeo per i migranti, ha infatti elogiato il metodo duro imposto da Minniti che ha di fatto ridotto il flusso migranti in arrivo sulle coste italiane «dell'81% rispetto all'anno scorso». Due notizie, la sentenza e gli elogi, che segnano il futuro della politica europea sull'immigrazione.

La storia del «io non li voglio» è iniziata nella prima metà del 2015. Nel maggio 2015, prevedendo l'ondata migratoria che avrebbe portato sulle coste italiane 880.000 persone e la Commissione ha avanzato la proposta di distribuire «persone in evidente bisogno di protezione internazionale all'interno dell'UE». E così, nel settembre dello stesso anno, il Consiglio europeo ha deciso per la ricollocazione «temporanea ed eccezionale a favore di 160.000» persone dalla Grecia e dall'Italia. Tralasciando quelli che sono stati i numeri effettivi di ricollocamento, ben lontani dal rispetto della regola che imponeva una distribuzione in relazione alla quota legata alla popolazione e all'economia di ciascun Paese, alcuni Paesi dell'Est Europa hanno deciso di non rispettare le decisioni del Consiglio. Come? Semplice, premendo il pulsante stand-by grazie all'avanzamento di un ricorso alla Corte di Giustizia Europea. In attesa del verdetto i 160.000 migranti sono rimasti più o meno al loro posto.

La storia, invece, del metodo-Minniti è iniziata il 12 aprile scorso, quando la camera ha approvato il decreto Minniti-Orlando sull'immigrazione. A questo è seguito il codice di condotta per le ong operanti nel Mediterraneo, approvato a metà luglio dalla Commissione Ue, che, criticato a sinistra e ben visto a destra, è stato un punto interrogativo del governo Gentiloni: funzionerà? C'era chi vociferava che la riduzione nel numero di sbarchi era dovuta al fatto che ci fossero meno persone in partenza dai Paesi africani, e non alle misure adottate dal governo italiano. Ma proprio mentre il muro eretto dai tre Paesi dell'Est viene abbattuto dalla sentenza della Corte Europea ce n'era un altro che viene distrutto: quello che impedisce il riconoscimento dei risultati raggiunti dalla linea dura di Minniti.

Avramopoulos ha tenuto a ribadire che se Ungheria e Slovacchia «non cambieranno il loro approccio sui ricollocamenti, andremo avanti con l'ultimo passo della procedura di infrazione: il deferimento alla Corte

di giustizia Ue». La prima risposta è arrivata da Budapest, affermando che la decisione della Corte è «oltraggiosa e irresponsabile» e «mette a rischio la sicurezza dell'Europa».

La linea dura avrà ragione anche stavolta?

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