Non ne vuole sapere Puigdemont di consegnarsi spontaneamente alla giustizia belga che esamina il mandato d'arresto europeo emesso dal Tribunale Supremo di Spagna. Intanto il governo belga si chiama fuori dalla crisi catalana. «Una questione esclusivamente giudiziaria», ha detto in un comunicato diffuso via Twitter, il ministro della Giustizia, Koen Geens. L'ex president, l'agitatore secessionista che da fine agosto ha attirato gli occhi del mondo sulla Catalogna dichiarandola repubblica, per poi fuggire il 30 ottobre in Belgio inseguito dalla magistratura, non sembra molto preoccupato di dover raggiungere il vice e i suoi sette ministri in carcere. Assieme ai quattro rimasti con lui. Ieri, in una lunga intervista alla tv belga, in un fiammante francese l'ex governatore padroneggia cinque lingue ha chiarito la sua posizione: «Siamo pronti a collaborare con la giustizia belga. E sono pronto a resistere agli attacchi dello Stato spagnolo in una persecuzione ingiusta e dettata dal volere di un esecutivo che per diciotto volte ha respinto la nostra richiesta di aprire un dialogo sulla secessione». Ai giornalisti ha ribadito la volontà di sfidare il premier Rajoy e di riconquistare, da uomo libero, la sua poltrona di presidente: «Ho deciso di candidarmi alle elezioni del 21 dicembre, anche come prigioniero politico, anche dal Belgio». Poi, rivolgendosi alla sua falange disorientata d'indipendentisti: «Vi chiedo di non fomentare l'odio e di astenervi dalla violenza. Il nostro è sempre stato e sarà un processo pacifico».
E se Puigdemont, esiliatosi a Bruxelles con la certezza di essere ospite di uno dei paesi europei più garantisti, guarda alle elezioni e attende il suo trionfale ritorno a Barcellona, tra i suoi partiti alleati regna il caos e il disorientamento. Sabato, al termine dell'ennesima riunione, Marta Pascal, segretaria del PDeCat, ha invocato una lista comune che raccolga «la più ampia presenza di partiti democratici che vogliono la repubblica», così come ha chiesto, speranzoso, dal Belgio il loro ex president. Ma gli alleati sono divisi e irrequieti per la mancanza di una guida forte: Junqueras, vice president e leader della Sinistra repubblicana catalana al momento è in una cella di 15 metri quadrati, ospite per 58 giorni del ministero della Giustizia: la sua Erc minaccia di correre da sola o, addirittura, di non correre il 21 dicembre. La Cup, la sinistra della sinistra catalana, dopo essere stata tradita dalla «dichiarazione sospesa» e poi dalla fuga di Puigdemont, non appoggerà più il PDeCat dell'ex presidente fuggiasco. Albert Botram, portavoce dei super comunisti, conquistati e traditi dal fascino dell'indipendentismo senza regole, ripete «no» alle elezioni. Ma all'interno una nuova corrente sgomita per riprovarci con la coalizione che nel 2015 partorì uno sgangherato e diviso tripartito di governo.
Ieri ha parlato un ex peso massimo dei Socialisti spagnoli, l'ex segretario generale, Felipe González, primo ministro dal 1982 al 1996 gli anni d'oro della Spagna - ed ex presidente del Consiglio europeo.
Per González la fuga di Puigdemont è stato «un puro atto di codardia», ha, poi, difeso la sovranità dei giudici, bacchettando il premier Rajoy per «aver trascinato a lungo la questione catalana, senza essere riuscito a risolverla con il dibattito politico, aggrappato alle misure costituzionali dell'art.155».
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