Bambini morti sotto le macerie del terremoto, bambini morti a Nizza, bambini morti - a centinaia, a migliaia - nel Mediterraneo, in Siria. Qualcuno ha parlato di un'"estate nera dei bambini". Altro che estate: anni neri. Ma è così?
Tutti noi, in un modo o nell'altro, siamo stati educati alla fiducia nei confronti della ragione, della conoscenza scientifica. La letteratura è piena di commissari e di ispettori che, immancabilmente, risolvono i casi più intricati. L'orrore è un incidente che renderà più grande il trionfo della verità. Ma, ripeto: è così?
Ha senso mettere insieme tutte queste tragedie, così diverse una dall'altra, solo per produrre un nuovo titolo, una nuova psicosi? La ragione ci suggerisce di affrontare i casi uno per uno, e cercare, all'interno di ciascuno, le parole giuste, o comunque le meno sbagliate, per parlare di qualcosa che mette spavento.
Che senso ha, insomma, la morte di un bambino? Esiste qualcosa di più spaventoso, di più insensato della morte di un proprio adorato figlio?
No, nessun senso. Potremmo dire che la morte dei bambini a Nizza o quella di chi annega nel mare sono il segno tangibile che l'uomo, come tale, nonostante tutte le tutele invocate e tutta la correttezza politica, conta ogni giorno di meno, che i poteri veri - quelli che controllano la nostra salute, o quelli che decidono le guerre e chi deve essere nemico di chi - considerano l'uomo pari a zero, e che anche noi (che alla lunga la pensiamo come i potenti) stiamo finendo per pensare la stessa cosa.
Ma i bambini morti sotto le macerie del terremoto di quale perversa tendenza umana sono segno? Nessuna tendenza. La sola colpa di chi è morto era quella di esserci, di essere lì. Che c'entra tutto questo con Nizza? con la tragedia dei migranti? Due pensieri sorgono. Il primo è semplice quanto spaventoso. Non c'è ragione, non c'è senso. Nessuno spazio per discorsi consolatori, siamo persone adulte: se un senso c'è bene, ma se non c'è non c'è. Nell'abbraccio della morte Dio non esiste, oppure è lontano. Quel che è certo è che ci dovrà qualche spiegazione. Ma per il momento non dobbiamo cercare di far quadrare i conti, sarebbe un orrore in più.
La sola cosa che accomuna i morti in mare, quelli di Nizza e quelli nel terremoto è la colpa, l'antica colpa di esistere. Sempre che sia una colpa. Comunque non ce n'è un'altra.
Ma c'è un secondo pensiero, che in parte annulla il primo. Ed è questo. Che noi, ogni giorno che passa, abbiamo sempre più paura del tempo. Noi non sopportiamo che tra le domande e le risposte passi del tempo, non ci fidiamo del tempo, non sappiamo più cosa sia la pazienza. Il nostro nichilismo ha a che fare con questa paura irrazionale.
Mi viene in mente papa Benedetto XVI quando una bimba giapponese gli domandò che senso poteva avere la sciagura che aveva colpito il suo paese l'11 marzo del 2011. La sua risposta fu "non lo so". Era pieno di dolore mentre lo diceva, ma non distrutto. Pensava che il tempo avrebbe portato una risposta, in questo mondo o nell'altro.
Di fronte alla morte di un bambino, e al ripetersi, martellante, di notizie come questa, le alternative non sono molte: o il tempo ha un senso, oppure l'esistenza è solo un buco nero. Ma forse la risposta all'enigma più che dai nostri ragionamenti ci viene dalla realtà stessa, con il moltiplicarsi di atti gratuiti di solidarietà e di generosità. In queste ore si corre, si scava a mani nude, si cerca, sopportando l'orrore e la fatica, sfidando il pericolo, giorno e notte. Se la cultura (compreso il mondo dell'informazione, e soprattutto quello dello show-business) ci spinge allo scetticismo, per fortuna la vita vera ci offre altri scenari.
Nessun figlio morto potrà esserci restituito, questo è vero: ma una mano che si tende verso di te, un abbraccio, una
carezza, una piccola parola, qualcuno che piange con noi senza lasciarci soli con le nostre lacrime disperate, sono quantomeno il segno che, se anche la morte arriva, noi e i nostri cari bambini non siamo fatti per la morte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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