Mattarella bacchetta i pm star: "La toga non è abito di scena"

Il presidente parla ai tirocinanti ma striglia Davigo & C.: "Il magistrato deve dismettere i panni personali"

Mattarella bacchetta i pm star: "La toga non è abito di scena"

Basta con i pm star, stop alla giustizia spettacolo. «La toga - spiega Sergio Mattarella ai tanti che ancora non l'hanno capito - non è un abito di scena. Non si tratta di un simbolo ridondante e viene indossata per manifestare il significato di "rivestire" il magistrato, che deve dismettere i propri panni personali e esprimere, così, appieno la garanzia di imparzialità». Troppo inchieste temerarie, troppe operazioni politiche travestite. Il presidente non ne può più. Se infatti, dice, ci si lascia «condizionare dall'opinione pubblica» o, ancora peggio, se si ha «una visione individualistica della propria funzione», si rischia fatalmente di «perdere di vista la finalità della legge e l'interesse della collettività». A Piercamillo Davigo, Henry John Woodcock, e Nino Di Matteo, i principali destinatari della strigliata presidenziale, sono senz'altro fischiate le orecchie.

Mattarella come ogni anno riceve al Quirinale i giovani magistrati tirocinanti, ma stavolta non si limita agli auguri e ai buoni consigli. Già l'altro giorno, dietro ispirazione del Colle, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini aveva attaccato con durezza «il protagonismo» di alcuni giudici. Ora il capo dello Stato, lui sempre così felpato, riprende il discorso con ancora maggior fermezza. «A voi viene richiesta una capacità particolare e una maturità professionale, che non si concretizzano soltanto nella conoscenza che consente di orientarsi nel labirinto del diritto, ma anche nello spirito critico e nella capacità di mettere da parte le personali convinzioni, quando queste non trovino fondamento nella conoscenza dei fatti acquisiti e nelle norme dell'ordinamento». Niente scorciatoie, è il senso, le ideologie non possono sostituire le prove. «Oggi l'attività giudiziaria è al centro del dibattito pubblico, grazie all'evoluzione dei mezzi di comunicazione», però «il processo penale non è una contesa tra privati e si svolge nei tribunali». Non sui giornali.

E, avverte, nessun meccanicismo. «Il magistrato non è chiamato a esercitare in modo automatico la sua funzione, ma a lui si chiede di tradurre nella decisione la volontà sociale espressa dalla legge». Per Mattarella insomma ci sono dei limiti precisi. «Quando si fa uso di poteri conferiti dallo Stato, non si deve dare nemmeno l'impressione di perseguire finalità estranee alla legge, o di elevare a parametro opinioni personali». Ne va di mezzo «la credibilità della funzione giudiziaria, bene prezioso della Costituzione e della democrazia».

Quanto poi all'autonomia, pure qui Mattarella spazza via tutti i dubbi interpretativi. «L'irrinunciabile principio dell'autonomia e dell'indipendenza, garantite dall'articolo 101 della nostra Carta, non può essere, in alcun modo una legittimazione per ogni genere di decisione, anche arbitraria». Non è quindi una sorta di immunità, di un tana libera tutti, ma soltanto «la garanzia di difesa da influenze esterne affinché il magistrato utilizzi il suo bagaglio culturale per applicare il diritto nel caso concreto».

C'è di più: «Autonomia e indipendenza - precisa il capo dello Stato - vengono rafforzate dall'applicazione obiettiva della legge, operata non in nome proprio ma in nome del popolo italiano, secondo le regole di legge definite dal Parlamento. E vi è un delicato confine, da rispettare, tra interpretazione della legge e creazione arbitraria della regola». Una frontiera che evidentemente viene troppo spesso superata, visto che il presidente è costretto a sottolinearne ancora l'esistenza.

Conclusione: «Il diritto vive attraverso la conoscenza dei fatti e l'interpretazione delle norme», però «la scelta adottata deve essere plausibile e non può mai esprimere arbitrio. È sempre una norma a dover delineare, perimetrandolo, l'ambito di riferimento dello ius dicere».

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