Silenzio, parla il «numero uno». Il paziente numero uno. Il primo ad avere contratto il virus Covid-19 in Italia, e colui che ci riporta un timido sorriso in giorni in cui indossiamo una mascherina di paura e diffidenza. Ascoltiamo, quindi, Mattia.
Mattia è da lunedì uscito dalla terapia intensiva, respira da solo e vede la luce fuori da un tunnel lungo venti giorni. E ieri ha parlato, chiedendo lumi: «Dove sono? Nell'ospedale di Lodi?». No, Mattia è al San Matteto di Pavia. E probabilmente ce la farà a diventare padre. Sua moglie, ricoverata anche lei ma al Sacco di Milano, è a casa, sana e salva. E pronta a sfornare la loro prima figlia. Che magari chiameranno Gioia. Perché c'è un po' di gioia anche nell'orrore.
Mattia ha 38 anni ed è stato il primo protagonista di questa vicenda che all'inizio sembrava un romanzo popolare lodigiano e ora è una pandemia che non fa prigionieri. Manager dell'Unilever, runner, giocatore di calcio, volontario, di professione iperattivo e quindi «superdiffusore» del virus, si recò una prima volta all'ospedale di Codogno il 18 febbraio scorso, quando aveva sintomi lievi e non venne identificato come un possibile «coronavirusizzato». Poi il 20, essendo le sue condizioni peggiorate, si ripresentò al pronto soccorso del nosocomio del comune lodigiano e scattò l'allarme. Finì in terapia intensiva e gettò nell'ansia tutta l'Italia. Per qualche giorno a partire da quel venerdì Mattia fu l'uomo più scrutato e «attenzionato» del Paese, tutti a trattenere il fiato per quel Superman in disarmo. Tutti a ripercorrere i suoi spostamenti, le sue attività, i suoi incontri, come in un grande scoial network del terrore. E ora lui sorride e parla e domanda. E insegna.
Sì, Mattia insegna qualcosa che ci dà speranza. Ci racconta che il coronavirus può farti barcollare ma se non molli lo batti. Certo, se sei giovane. Certo, se hai un fisico in forma. Certo, se non hai altre patologie. Certo, se trovi i medici giusti, che ti sottopongono a un trattamento basato, in assenza di una terapia specifica, a un cocktail di farmaci antivirali e antibiotici tra i quali anche uno utilizzato contro l'Aids. E anche degli antinfiammatori, visto che Raffaele Bruno, direttore dell'Unità di malattie infettive del San Matteo «abbiamo riscontrato una forte componente infiammatoria nella patologia e per questo abbiamo deciso di percorrere questa strada di cura». Bruno avverte che per lui e per il suo staff sono tutti pazienti «numero uno» ed è giusto che sia così. Ma alla fine c'è solo un vero numero uno, ed è Mattia. Che si rialza perché vuole far nascere la sua figlia e anche una speranza i noi, spaventati e soli.
Ma non tutti i «numeri primi» ci donano un sorriso. C'è anche chi, come Renato Turetta, torna a intristirci. Lui è, anzi era, il sessantasettenne di Vo' Euganeo tra i primissimi contagiati nel comune del padovano, che passava i pomeriggi a giocare a carte nella Locanda del Sole con Adriano Trevisan, che in questa grande epopea passerà alla storia come il primo morto italiano per Covid-19.
Turetta era stato ricoverato oltre un mese fa per quella che sembrava un'influenza, dapprima a Schiavonia e poi a Padova. Sembrava avercela fatta, ma ogni giocatore di carte sa che prima di cantare vittoria bisogna aspettare l'ultima mano.
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