Roma - Promette di essere davvero intricata come non mai, la questione delle presidenze delle Camere. «Se volesse ascoltare me - ragionava ancora ieri Giorgia Meloni con i fedelissimi -, Salvini eviterebbe di commettere un errore grave. Prenderebbe la presidenza al Senato, dove il centrodestra ha i numeri, e lascerebbe che la coalizione vincitrice prendesse anche la Camera, com'è sempre stato. In caso di incarico, sarebbe ancora più forte. E potrebbe poi sempre dimettersi da Palazzo Madama».
Questo è anche quanto la Meloni ha chiarito al «telefonista della domenica», Luigi Di Maio, nei dieci minuti scarsi di colloquio. «Non è affatto dovuto che si dia una presidenza di una Camera alla forza che è arrivata seconda... Chi è arrivato primo si è preso la presidenza di entrambe le Camere». Al capo grillino non è rimasto che abbozzare: per una volta ha trovato un interlocutore dalla parlantina più fluida della sua. In effetti, nel passato quasi sempre è accaduto quanto dice la Meloni. Nella scorsa legislatura con Grasso (Pd) e la Boldrini (Sel); in quella precedente Schifani e Fini, entrambi Pdl. Andando a ritroso, nelle altre legislature della seconda Repubblica: Marini e Bertinotti; Pera e Casini; Mancino e Violante; Scognamiglio e Pivetti. Tutte «coppie» dello stesso partito o della coalizione vincitrice.
È vero però che in questa XVIII legislatura la legge elettorale non assegna la vittoria in maniera del tutto univoca come in quelle precedenti, ed ecco che le velleità grilline trovano un punto d'appoggio politico nell'essere il gruppo parlamentare più numeroso di entrambi i rami parlamentari. Ma senza disporre di alcuna maggioranza, come si sa. Ecco perché se a Palazzo Madama i numeri parlano di una questione che il centrodestra può risolvere in quattro e quattr'otto, i riflessi su Montecitorio possono complicare tutto.
Il «veto» posto dal «dialogante» (a modo suo) Di Maio sui due candidati con maggiori chance al Senato (Romani e Calderoli, in quanto implicati in vicende giudiziarie) rischia perciò di lasciare il tempo che trova. E, dalle ultime di Palazzo, sembrerebbe proprio che sul nome di Romani si possa trovare l'accordo con i leghisti (e persino parte del Pd). Dovrebbe invece esser tramontata la candidatura di Giulia Bongiorno, alla sua prima esperienza parlamentare nella Lega, sgradita a Forza Italia.
Certo è, invece, che con Romani al Senato, Salvini dovrebbe scegliere se andare fino in fondo alla Camera sul nome di Giorgetti (timidi segnali di gradimento da parte del Pd), o instaurare un patto di «buon vicinato» con M5s, riconoscendo loro il diritto a un ruolo di garanzia
cruciale nello svolgimento politico della legislatura. In questo caso, il più accreditato torna a essere il giornalista Emilio Carelli, che buona parte di Forza Italia e anche molti leghisti non vedono affatto di cattivo occhio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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