Coronavirus

La mia fuga in treno dalla Milano blindata tra isteria, disinformazione e pochi controlli

Un nostro cronista ha scelto di scappare viaggiando da Centrale a Termini

La mia fuga in treno dalla Milano blindata tra isteria, disinformazione e pochi controlli

Mi sono addormentato a Milano nella notte dell'Italia zona rossa e sto scrivendo da Roma città ancora aperta. E anche io, come tutti gli italiani, ho avuto paura di rimanere bloccato. Avevo acquistato un biglietto Italo, il 9927, che sarebbe partito domenica da Milano Centrale alle 10,40 e arrivato a Roma Termini alle 14,19. Prima classe, 83 euro. Ne ho dovuti aggiungere altri 23 perché preso dal panico, sì, pure io, nelle ore di sabato, quelle del decreto «fermate-tutto», ho deciso di anticiparlo e di partire alle 7,15, carrozza 6, posto 14.

A mezzanotte ho forse sognato, o forse no, soldati, check point, uomini e donne in fila allontanati. Mi sono immaginato l'assalto ferroviario che non era un sogno, ma un video che mi è stato girato (ed era a quel punto che l'orologio segnava l'una). Non era altro che la corsa, vera, dopo la notizia, degli spaventati verso la stazione di Milano Garibaldi. In quel momento ho preso sonno e mi sono svegliato alle 6. Mi sono collegato, prima di lavarmi la faccia, ai siti dei principali quotidiani e non ho capito se non che nessuno aveva capito nulla. Ho messo le mie poche cose in valigia e una volta in Centrale non mi attendeva nessun agente della polizia e non serviva preparare il documento. Ho trovato i negozi chiusi e gli operatori delle televisioni che già giravano le immagini per le trasmissioni. Ho preso un caffè in un bar in cui il barista non smetteva di pulire il bancone. Mi sono aggirato per la stazione che non era in preda al delirio ma al torpore, occhi e capelli stropicciati. Mancava più di mezz'ora ma mi sono precipitato all'entrata, dove nessuno mi ha chiesto il biglietto. Ho esitato. Un uomo della sicurezza mi ha fatto cenno di proseguire. «Se vuole le mostro il biglietto». «Non serve», mi ha risposto. Ho trascinato la valigia e ho fermato il primo che aveva la faccia da ferroviere. «Ma si parte?». Lo chieda al ministero degli Interni mi replica infastidito. Capisco che nessuno ha ordini in merito e che l'aria è da otto settembre, da tutti a casa. Pietro, macchinista, che non vive a Milano, racconta che il decreto sarà stato fatto, ma nessuno ha pensato di informare le Ferrovie. E allora, che si fa? «Io le consiglio di partire». Accetto il consiglio, ma vorrei saperne qualcosa in più. Ci riprovo con un funzionario di Italo che a perplessità aggiunge perplessità: «Non abbiamo ricevuto nulla e mi creda anche noi avremmo voluto fermarci». Mi dice che, da quello che ha compreso, le ferrovie sarebbero al collasso e non per il coronavirus ma perché «non ci sarebbero più macchinisti, personale. Molti abitano fuori». È il paradosso del ferroviere non muoversi?

Accanto a me, un uomo strepita. Dice che ha perso la valigia che vedo avere dietro di lui. «L'ho persa! L'ho persa». Per fortuna arriva la moglie che lo fa girare e lo accarezza. È allora che, sul tabellone, appare il mio binario. È il 14 ma dico la verità, adesso che posso partire mi viene voglia di restare. Mi lascio spingere da un piccolo gruppo. Sono tutti con la mascherina e mi chiedono aiuto per caricare a bordo una valigia. Guardo la mia poltrona vuota. Rivedo Pietro, il macchinista, che non diserta: «Salga, vedrà che riuscirà a tornare». Penso alla frase della sera precedente «e però, se rimani». Vorrei dire che non sarebbe lo stesso poter dire al telefono «vedrai che tornerò, qualche volta». Ma adesso sono a Roma malgrado il virus, le decisioni del consiglio dei ministri. E già mi manca Milano.

Non ho febbre, ve lo assicuro, solo un po' di malinconia, ma per quella non serve il tampone.

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