Il futuro di Richie, Ismail, Ablai, Ibrahim e di tanti come loro ha un perimetro ristretto e angusto che, anche per noi, rischia di rimanere tale troppo a lungo: è delimitato dal fazzoletto d'erba sotto la mela di Pistoletto, proprio davanti alla stazione Centrale, sotto la quale s'incontrano ogni giorno per stare un po' insieme. Poco per chi fugge da una dittatura come quella del Gambia, o dalla Libia, dal Mali, dalla Sierra Leone per cambiare esistenza. Praticamente nulla per chi è in cerca di un orizzonte sempre più impossibile da raggiungere, almeno in questa vita. La loro forza sta nella costanza della disperazione, nel fatto di esserci e - forse, senz'altro - nel sapere che da qui non li manda via nessuno: la conferenza Stato-Regione del luglio 2014 ha stabilito i fondi di solidarietà e previsto che, comunque vada, dei profughi sbarcati in Italia, la regione Lombardia si prenda il 14 per cento. Questo sia che ne arrivino 100 che 100mila, per fare il calcolo non serve un pallottoliere. Nel 2014 dal canale di Sicilia giunsero in Italia 173mila profughi provenienti dall'area sub sahariana; nel 2015, grazie all'apertura della rotta balcanica, erano diminuiti a più di 150mila. Quest'anno gli arrivi nel nostro Paese si attestano sugli 85-90mila, ma la musica è cambiata di parecchio. Francia, Austria, Germania hanno blindato le frontiere, la rotta balcanica è impraticabile se non addirittura inutile. Così Milano - a due passi da una Svizzera sempre severissima ma possibilista - è diventata molto appetibile.
«L'Isis non attaccherà mai l'Italia, Milano. Siete i soli ad aiutarci, preghiamo per voi ogni notte: vedrai, non vi succederà nulla» dichiara convinto in un inglese perfetto Daaud, 22enne del Gambia, occhioni neri profondi come l'abisso e la maglietta con la scritta Italia. Lui dorme nel campo di Bresso di notte e di giorno si vede sotto la mela con gli amici. Tra loro c'è Ismail, 35enne capo di un partito politico gambese di opposizione alla dittatura, ferite su tutto il corpo, un orologio d'oro che non funziona e un posto nel campo vicino a Linate. «Io al mio paese stavo bene: macchina, lavoro, due figlie, una moglie. Se non scappavo, però, gli uomini di Yahya Jammeh (il feroce dittatore, ndr) avrebbero finito per ammazzarmi». Chissà perché allora la sua domanda di asilo politico è già stata rifiutata una volta. «E io la ripresento. All'infinito se occorre» ci assicura dietro gli occhiali scuri, disposto a restare a Milano anche per l'eternità.
Ma Milano è stanca e sbuffa delusa e stracolma come una caffettiera bollente. In questo agosto ancora troppo difficile per poter sghignazzare davanti a un Matteo Renzi che, solo partendo dal Brasile, ha dato il via alle vittorie dell'Italia alle Olimpiadi di Rio. Dimostrando così ancora una volta che, tra l'altro, proprio un portafortuna non è. Su 134 comuni solo 40 sono interessati all'accoglienza e in misura non uniforme. Finora nei Centri di accoglienza straordinari (Cas) sotto la Madonnina sono ospitati 3.200 profughi, mentre altri 1500 sono in provincia tra il campo di Bresso (che da solo dà posto a 600), Magenta e San Zenone al Lambro. I tanti, troppi, che gravitano sulla città in palese affanno, s'insinuano nelle sue pieghe, hanno capito che qui, in un modo o nell'altro, troveranno un conforto, non necessariamente a breve termine. Perché questa Milano-calamita non è più un luogo di transito - sia per la sua rete di solidarietà e aiuto che per un nodo ferroviario dal quale si può raggiungere Lione, Ventimiglia, il Brennero tentando la sorte anche più volte - ma di stanzialità.
«E anche quel che propone la Lega, cioè creare situazioni tali per far vivere bene questa gente ma in Africa, se dovesse andare in porto comincerà a dare qualche frutto solo tra alcuni anno» sussurra concreto un volontario fedele al Carroccio, ma impegnato 24 ore su 24 nell'hub di via Sammartini - tra bambini bellissimi e madri granitiche - con un sorriso e un'energia da rubargli.
Sì, Milano di fronte a questa marea di gente si fa piccola e patisce.
Anche se l'assessore comunale al Welfare Pierfrancesco Majorino fa avanti indietro da via Sammartini, controllando che tutto funzioni, che il degrado non «sporchi» i 2300 posti letto offerti ogni notte dall'Amministrazione e s'impegna di persona a non far sdraiare i profughi sulle panchine per salvare almeno un po' le apparenze. Anche se Silvia Sardone, consigliere comunale di Forza Italia, ha regalato ai piccoli profughi, una casetta colorata. La Libia è là. Con i suoi 1700 chilometri di coste impossibili da monitorare.
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