Minniti molla, Renzi sorride: Pd verso l'implosione

Le primarie non eleggeranno un leader con pieni poteri. E l'ex premier sarà ancora centrale

Minniti molla, Renzi sorride: Pd verso l'implosione

Roma - Il Pd è nel caos e, a due anni dalla sconfitta nel referendum e a quasi sei mesi da quella nelle elezioni politiche, è sempre Matteo Renzi ad esserne indicato - nel bene e ora soprattutto nel male - come il deus ex machina.

Critiche e accuse, che ormai rimbalzano anche tra i fedelissimi esasperati, si susseguono: prima Renzi ha convinto Marco Minniti a candidarsi alla segreteria, poi ha iniziato le manovre di sabotaggio. Facendo girare come trottole le voci su una sua ormai prossima uscita dal Pd, per fondare un partito anti-populista e liberal-democratico. Da solo, perché ai suoi ha detto chiaro e tondo «arrangiatevi, poi se mai ci rivediamo». Un partito da far correre alle prossime Europee, anzi no, alle Politiche, anzi chissà. Un attivismo frenetico, di cui trapelavano - tra una smentita e una conferma - incontri con alti dirigenti di Forza Italia come Paolo Romani o conciliaboli in Europa con esponenti di rango del partito di Macron o del Pse. Nel frattempo l'area renziana del Pd, che aveva inizialmente capito di dover lavorare per Minniti, non sapeva più dove volesse andare a parare il leader e restava paralizzata. Persino la raccolta di firme sul territorio per presentare la candidatura era ferma, e i sondaggi non promettevano nulla di buono. Alla fine l'ex ministro dell'Interno è sbottato e ieri, dopo giorni di voci, ha ufficializzato la rinuncia alla candidatura. «Un gesto d'amore verso il partito», dice, spiegando che c'è il rischio altissimo, data la presenza di troppi candidati, che il futuro segretario non sia eletto con l'investitura delle primarie ma dai giochi di potere dell'Assemblea nazionale. Renzi nega di aver a che fare con la decisione di Minniti: «Da mesi non mi preoccupo della Ditta Pd: mi preoccupo del Paese. Che è più importante». Ma, ricordano i «minnitiani», Matteo «ha capito che, una volta eletto, Marco non sarebbe stato il segretario di Renzi». O anche perché, spiegano altri, «non vuole che il Pd, dopo di lui, abbia un altro leader con pieni poteri: preferisce un partito eternamente destabilizzato».

Del resto, ricordano, fu lui ad impedire, nelle convulse settimane dopo il 4 marzo e le sue dimissioni da segretario, la soluzione «unitaria» che in molti, da Veltroni a Orlando, da Calenda a Bentivogli, caldeggiavano: l'elezione a segretario, e quindi a capo dell'opposizione, del premier uscente Paolo Gentiloni. Il veto renziano bruciò l'ipotesi, e gli ultimi ponti con Gentiloni. Così, mentre il Pd si trasforma sempre più in una maionese impazzita di mini-correnti, è spuntata l'idea di «un altro partito».

I molti convinti che Renzi stia davvero lavorando in quella direzione spiegano che il boicottaggio di Minniti serviva anche a questo: «Se viene eletto Zingaretti, il pretesto per rompere e fare la scissione prima delle Europee c'è». Lui nega: «Non sarò l'assassino del Pd». Certo non il solo.

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