Una "moratoria" che allunga la vita al governo

Il sollievo dei gialloverdi: va bene così, fra 18 mesi chissà se saremo a Palazzo Chigi

Una "moratoria" che allunga la vita al governo

Roma - Diciotto mesi. Una moratoria pagata a caro prezzo ai concessionari che trivellano i mari alla ricerca di «oro nero», in attesa di un piano complessivo, futuribile, che tenga assieme le buone ragioni dell'ambiente e quelle dello sviluppo.

Ma il problema della mediazione raggiunta l'altra notte al tavolo riunito d'urgenza dal premier Conte, per sbloccare il dl «semplificazioni» al Senato, è un altro. Così come il rinvio della palla in tribuna ha un sapore amaro, diverso dalle altre volte. Un «annusamento» tra i due alleati che è stato allo stesso tempo viscido e vischioso come il petrolio. Al punto, dicono fonti di entrambi, che «chissà se ci sarà ancora il governo, tra diciotto mesi». Un anno e mezzo di vita, dunque, per superare le Europee e le avversità della prossima manovra, oltre che del funzionamento delle due misure-bandiera: reddito di cittadinanza e quota 100. Una scadenza forse persino troppo ottimistica, ma che corrisponde al riservatissimo «patto di ferro» stipulato tra Di Maio e Salvini. Sarebbe stato infatti il vicepremier leghista, in collegamento telefonico perché influenzato, a lanciare l'idea di una moratoria, subito accolta con entusiasmo sul versante grillino.

Si racconta che mai come l'altra notte la coalizione sia stata sul punto di crollare sotto il peso della propria incongruenza. Crisi sfiorata su un tema che può apparire «marginale» solo se non si tiene conto che tocca, in un corto circuito difficilmente riparabile, le ragioni costitutive di M5s e Lega. Addio «divergenze parallele», quindi, perché per i 5s sarebbe stato impensabile cedere alla vigilia della campagna elettorale su un tema che ne ha coagulato il consenso delle origini, peraltro con il ministro Costa già clamorosamente alfiere del «no». Lo stesso di può dire anche per i leghisti, il cui bacino elettorale ormai soffre per una ripresa dell'economia a lungo vagheggiata, ma ora seriamente compromessa dall'aria di recessione. Dunque la riunione non è finita affatto bene, e alle dichiarazioni trionfalistiche dei 5s hanno fatto immediato riscontro quelle di ambienti leghisti che riportavano la furente «irritazione» per l'ennesimo cedimento al «partito del No». Altro che passate polemiche sulla «manina» nel decreto fiscale o la lite Conte-Salvini sui migranti. Bazzecole, dicono, rispetto al motivo di una contesa che tocca un nervo scoperto e concreto: l'idea diversa di sviluppo tra M5s e Lega. «La politica del no a tutto non fa bene al Paese», trapelava da Palazzo Chigi, presumibilmente dagli uffici del sottosegretario Giorgetti, già dichiaratamente schierato per il «sì» al Tav e a qualsiasi Grande opera che possa riaccendere la miccia di un'economia che va spegnendosi, specie nel Nord-Est. Nel contempo, fonti grilline ribadivano che «non potevamo certo indietreggiare di fronte a una storica battaglia che è nel nostro Dna». Al che, dalla Lega, si sottolineava l'irritazione nei confronti di «un approccio ideologico» mostrato dagli alleati. Insofferenza crescente che costringeva Salvini a dare un segnale a tutto il partito e alla base in fermento, lui che è il massimo sostenitore di questa unione con Di Maio. «L'unico No è agli sbarchi. Cominceremo a imporre un po' di Sì...», diceva.

L'approssimarsi della scadenza elettorale rende tutti più elettrici, rigidi, meno disposti a rinunciare

alle bandiere (tra qualche mese ci sarà la questione dell'autonomia richiesta da alcune regioni del Nord). È dunque uno di quei casi, come si suol dire, dove rimane più facile che ci scappi il morto, nelle stanze del potere.

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