Gian Micalessin
Dopo il Nobel sulla fiducia regalato a Obama nel 2009 quest'anno arriva il Nobel per la Pace che nessuno desidera. E stavolta siamo veramente al paradosso. La scelta - annunciata ieri - di premiare il presidente colombiano Juan Manuel Santos in virtù degli sforzi dispiegati per raggiungere un accordo di pace con i ribelli marxisti delle Farc sopraggiunge a soli 5 giorni dal clamoroso risultato del referendum con cui la maggioranza dei colombiani ha detto «No» all'intesa.
Dietro quel «No» alla pace serpeggiano la rabbia, il risentimento, il rancore di un popolo incapace di perdonare e tanto meno di assolvere. Dietro a quel «No» sopravvive, fresca e indelebile, la memoria degli orrori commessi per oltre 52 anni da dei ribelli che nel nome del comunismo hanno trafficato in cocaina, massacrato militari e civili, rapito migliaia d'innocenti e costretto sette milioni di persone ad abbandonare le regioni diventate campo di battaglia.
Probabilmente proprio in virtù di quel «No» alla pace i «professori» di Oslo hanno avuto la premura di non conferire il riconoscimento anche a Rodrigo Londono, il capo delle Farc, conosciuto con il soprannome di Timochenko, inseguito da vari mandati di cattura internazionali per terrorismo e traffico di droga. Certo nella torre d'avorio di Oslo - lontana da Bogotà, in termini mentali, ben più dei 9mila 200 chilometri di distanza effettiva - quel che conta non sono 52 anni di morte e terrore, ma lo stupore per una pace considerata bene e valore non rifiutabile.
Ed allora più della volontà popolare contano le disquisizioni su un referendum vinto con solo il 18,3 per cento dei «No» contro il 18 per cento dei «Sì» e un astensione di oltre il 63 per cento. Ma forse proprio in quel 63 per cento di astenuti si nasconde l'indifferenza o l'ostilità per un accordo che regalerebbe perdono e impunità a migliaia di militanti delle Farc. Un accordo destinato, in virtù del «No» referendario, a decadere già il prossimo 31 ottobre, ma che i delegati del Comitato del Nobel auspicano di mantenere in vita proprio grazie all'assegnazione del prestigioso premio.
«C'è il serio pericolo che il processo di pace s'interrompa e che la guerra civile riprenda il sopravvento - ammette Kaci Kullmann Five, responsabile del Comitato Norvegese per il Nobel - ma speriamo che il premio incoraggi le buone iniziative e tutti quelli in grado di fare la differenza all'interno di questo processo». Una speranza condivisa anche da un presidente Santos detestatissimo in patria, ma stimatissimo a livello internazionale per la tenacia con cui ha condotto i negoziati di pace.
«Questa è una grande spinta. Ora dichiara Santos - siamo veramente vicini alla conclusione del conflitto questo è un evento importante per il mio paese e per tutte le vittime della guerra». Il capo delle Farc, Londono, si consola invece con un tweet in cui dice di non aspirare a dei premi, ma soltanto alla pace e alla giustizia sociale in una Colombia libera dalla violenza dei paramilitari, dalle vendette e dalle menzogne. Parole buttate lì per nascondere il fastidio per il mancato riconoscimento e il ruolo insignificante giocato negli accordi. Il capo delle Farc non ha, infatti, mai incontrato il presidente colombiano e i mediatori cubani e norvegesi durante le trattative, presentandosi solo agli incontri finali di Cuba. La scarsa disponibilità di Londono è dovuta anche alle batoste subite dalla sua organizzazione, tra il 2006 e il 2009, quando l'attuale presidente guidava il ministero alla difesa.
In quei tre anni l'esercito colombiano riuscì ad eliminare il segretario delle Farc Raul Reyes grazie ad un raid messo a segno, nel marzo 2008, in una base in territorio ecuadoregno. Un raid seguito dalla liberazione dell'ex candidata presidenziale Ingrid Betancourt e di altri 14 ostaggi, tra cui tre americani, rapiti nel 2002.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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