Noi, prigionieri del primo vagone ogni sera rischiamo anche la pelle

È una forma di prigionia. Volontaria e necessaria. Nessuno obbliga me e gli altri come me. A costringerci è solo quel caro e vecchio amico di nome buon senso. Io mi autorecludo due volte al giorno: la mattina e a tarda sera. La mattina quando mi imprigiono in scelte che altrimenti non farei e decido come vestirmi e che cosa portare in treno; e la sera quando individuo con cura il vagone su cui salire. Sembrano cazzate. Sono invece un'assicurazione sulla vita.

Mi presento: sono uno dei prigionieri del primo vagone. Quei pendolari sfortunati al contrario che a causa degli orari non troveranno mai corridoi affollati bensì praterie di posti liberi a sedere. Siamo i pendolari dalle 21 e 30 in poi. Quelli solitari che ogni sera e ogni notte sfilano di fretta davanti a certe facce e certa gente all'entrata delle stazioni milanesi. Quelli che come minatori del terzo millennio scendono lungo il tunnel che collega la fermata del metro di Porta Venezia alla banchina sotterranea del Passante e per compagnia hanno l'eco dei propri passi sulle piastrelline con le cicche spiaccicate. Quelli che camminano inquietati come il ragazzino di Shining , il film, che pedalava sul triciclo lungo i corridoi vuoti di un hotel da brividi pieno di spaventi.

Anche noi prigionieri del primo vagone abbiamo un corridoio pieno di spaventi. È quello che ogni sera imbocchiamo ripensando alla bontà delle scelte fatte al mattino. Felici per essere riusciti anche quel giorno ad avere addosso cose e vestiti che non diano troppo nell'occhio. Felici per esserci detti no, l'orologio nuovo resta a casa; no, macché borsa di pelle, meglio quella telata e rovinata e scolorita; no, fra il tablet mezzo scassato e l'ultrapiatto prendiamo il primo che se lo fottono non ci piangiamo sopra e magari neppure ce lo fottono perché fa schifo anche a loro. A quella certa gente con quelle certe facce.

In fondo al tunnel di Porta Venezia si svolta a destra sfilando il cabinotto che non ho mai capito se sia dell'Atm o di Trenord. Dietro ai vetri oscurati che lo fanno sembrare un fortino sta asserragliato un tizio che se ne guarda bene dal mettere la testa fuori. Lo capisco. Farei lo stesso. Dopo un certo orario, tenere la porta aperta proprio lì, nel tunnel in mezzo al niente, è come spalancare le finestre del salotto di casa con l'argenteria sul tavolo e partire per le vacanze. Dopo il cabinotto la discesa prosegue per le scale. Una lunga infilata di gradini che sbocca sulla banchina della galleria principale dove transitano i treni per Bovisa, Novara, Lodi, Treviglio, Varese, Gallarate. C'è tutta la Lombardia, Expo compreso.

Ci siamo. È arrivato il momento della scelta più importante: quella che mi e ci porta alla volontaria reclusione nel primo vagone sperando non sia già pieno di altri prigionieri. Altrimenti bisogna rimediare ospitalità altrove. Più distanti, più lontani, più insicuri. È in quegli istanti che gli occhi iniziano a scorrere i finestrini per memorizzare in fretta i fermi immagine che arrivano dai vagoni successivi. Occhi che setacciano tra le facce della gente per capire se ci sono anche quelle di certa gente. Se invece nel primo vagone sono liberi i primi posti, quelli attaccati alla cabina del macchinista, allora è fatta. Sono una manciata e valgono la prima fila al concerto di Vasco. Nove volte su dieci siede lì anche il controllore. Nove volte su dieci dopo poco si chiude dentro la cabina del macchinista al sicuro dietro la porta blindata. Spesso è una ragazza. E mi chiedo sempre come diavolaccio venga in mente di mettere a quell'ora una donna di turno sui treni. Fatto sta, loro si sentono più sicuri dietro la porta. E noi ci sentiamo più sicuri accanto alla porta. Siamo tutti vicini. Prigionieri alla stessa maniera. Se non altro, se poi arriva certa gente con certe facce, possiamo bussare, picchiare, urlare, sperare che qualcuno ci faccia entrare o chiami via radio la polfer.

L'altra sera ero sul treno successivo a quello della gang con il machete.

Dopo mezzora fermi in mezzo al niente ad aspettare di ripartire ho picchiato forte su quella porta blindata. Volevo capire. È uscito il controllore. «Siamo fermi perché ci sono le ambulanze a Villapizzone. Hanno accoltellato due miei colleghi» mi ha detto lei. Bianca come un lenzuolo.

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