La tragedia del Mottarone

Ombre su Nerini "recidivo": insofferente sulla sicurezza

Fari puntati su due incidenti ad "Alpyland" l'attrazione gestita dallo stesso imprenditore

Ombre su Nerini "recidivo": insofferente sulla sicurezza

Il concetto di «recidività» è un concetto giuridico ben preciso, ma nel caso di Luigi Nerini assume in questa fase di indagine rischia di assumere una dimensione - per così dire - di carattere «morale» più ampia. Il nome del gestore della «funivia della morte» pare infatti non essere nuovo in procura a Verbania. Motivo? Dagli atti con cui il procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, ha chiesto la convalida del fermo e la misura del carcere per la tragedia del Mottarone (respinta dal giudice), si evince che Nerini era «già indagato per due incidenti in cui sono rimasti feriti un dipendente e un passeggero»: incidenti avvenuti nell'impianto di attrazione Alpyland gestito sempre da Nerini, attualmente indagato (ma a piede libero dopo la scarcerazione disposta dal gip) per la tragedia del Mottarone. Il particolare dell'«inchiesta Alpyland», ovviamente, non è collegabile con il disastro di domenica 23 maggio, ma viene ricordato dalla procura per sostenere «la già dimostrata insofferenza ad uno scrupoloso rispetto delle misure di sicurezza volte a tutelare l'incolumità degli utenti di tale genere di impianti».

Bisognerà intanto attendere lunedì prossimo per il nuovo sopralluogo della procura sulla vetta del Mottarone. La data è stata definita negli scorsi giorni, in accordo con il perito nominato dalla procuratrice di Verbania. Occorrerà capire se sarà necessario, come sembra, rimuovere la cabina dai boschi. Ma a salire in vetta dovrebbe essere anche il consulente di parte nominato da Gabriele Tadini, l'unico dei tre indagati che si trova ai domiciliari, che oggi è a Verbania insieme al legale Marcello Perillo. Sembra però che non sarà possibile per il consulente accedere all'area della strage, che ha provocato la morte di 14 persone, al momento sotto sequestro. Il nodo da risolvere, per tutti, è quello della rottura della fune: la procura aveva scritto, nella richiesta di misure cautelari poi respinta dal gip, che non si poteva sapere se si trattasse di «un evento autonomo ovvero collegato ai segnalati malfunzionamenti del sistema frenante, ripetutamente verificatesi nel periodo antecedente». Tadini, però, ha sempre considerato l'ipotesi impossibile: «Mai e poi mai avrei pensato che la fune traente avrebbe potuto spezzarsi» aveva dichiarato il caposervizio già durante il primo interrogatorio. Ipotesi ribadita anche dal suo legale, Marcello Perillo. A sapere dell'uso dei «forchettoni» però erano in tanti: il «tutti sapevano» pronunciato da Tadini si riferisce soprattutto agli altri due indagati. Ma ci sono anche diversi dipendenti, alcuni dei quali sentiti due volte in procura, che avrebbero ricevuto l'ordine di lasciare i ceppi inseriti e che dunque sapevano della loro esistenza.

Da parte sua il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Maria Montefusco, con una nota diffusa ieri mattina ha espresso «piena e convinta solidarietà» alla gip Donatella Banci Bonamici dopo le polemiche nate a seguito della decisione di non convalidare i fermi richiesti dalla Procura». Il presidente del tribunale scrive che «il clamore mediatico della tragica vicenda e la condivisibile sofferenza per le vittime non giustifichino in alcun modo la vera e propria gogna e addirittura le inaccettabili e preoccupanti minacce cui il gip di questo tribunale, per la sola adozione di un atto del proprio ufficio, è stato sottoposto da una parte dell'opinione pubblica», e parla di «esemplare e doveroso impegno profuso in un atto d'ufficio assunto in un'indagine delicata e complessa al solo scopo di accertare la verità». C'è chi la chiama «normale dialettica giudiziaria».

Ma altri usano termini ben più pesanti.

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