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Un Paese civile si riconosce dalle prigioni

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Un Paese civile si riconosce dalle prigioni

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Una delle condizioni che definiscono la civiltà di un paese è lo stato delle sue carceri. Quella giuridica liberale, che definisce se un paese è democratico o lo è scarsamente, da molto tempo ormai concepisce la detenzione, cioè la pena, come mezzo di riabilitazione del condannato. Nel nostro paese, poi, questa funzione è presente addirittura nella Costituzione; ma prima ancora, l'Italia è il paese di colui che ha dato inizio a questa civiltà giuridica liberale, vale a dire Cesare Beccaria. Per questo sono gravissimi i casi delle morti di due donne, nel giro di poche ore, e nello stesso carcere, quello torinese delle Molinette. Bene ha fatto, quindi, il Guardasigilli a recarvisi di persona, anche perché, prima di entrare in politica, nei suoi interventi, lo stato delle carceri è sempre stata una sua giusta preoccupazione. Al di là dei casi specifici, però, è tutto il sistema carcerario italiano che fa vivere i reclusi spesso al di sotto della soglia richiesta a un paese civile: più da carceri turche o iraniane, che da paese della Ue. I detenuti, ma poi anche le forze dell'ordine preposte al loro controllo. Purtroppo, questo tema ha sempre poco appassionato le forze politiche, anche quelle di sinistra. Solo i radicali di Marco Pannella ne fecero uno dei loro cavalli di battaglia. E Silvio Berlusconi, il cui ultimo governo varò un indulto, che i suoi avversari giustizialisti, chiamarono sprezzantemente svuota carceri. È evidente che bisogna fare qualcosa. Certo, costruire nuovi penitenziari: che però ha un costo. Bisognerebbe anche evitare di continuare a introdurre nel nostro ordinamento nuove fattispecie di reati, che portano in galera, anche prima della condanna, essenzialmente dei poveracci. Senza dire di quello che, fino a qualche anno fa, era un autentico abuso, rispetto ad altri paesi appunto civili, l'utilizzo della carcerazione preventiva: ricordiamo, ad esempio, che ai tempi di Tangentopoli fu largamente utilizzata come spinta a far confessare gli indagati. In tutta questa disorganizzazione, poi, si spiegano come possano accadere casi che la cronaca ci racconta: persone effettivamente pericolose lasciate a piede libero, mentre in carcere vengono mandati magari individui con problemi psichici, rei di piccoli furtarelli, come sembra il caso di una delle due donne morte a Torino. E, se volessimo essere ancora più arditi, ci sarebbe bisogno forse di un nuovo indulto. Una battaglia impopolare, certo, visto che il «crucifige», il «butta la chiave» sono parole d'ordine che portano più voti.

Ma chi sta al governo non può consentire che questo scempio continui.

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