In mezzo al Transatlantico di Montecitorio, Stefano Buffagni, sottosegretario agli Affari regionali ma soprattutto ambasciatore grillino per «le nomine», si misura sul tema se il governo gialloverde può togliere ai 5stelle pezzi d'identità. «Il problema ce lo siamo posto, ne abbiamo discusso racconta ma non è così. Ad esempio, il decreto dignità, che è stata una grande operazione, ci ha ridato quella identità che magari il protagonismo di Salvini sull'immigrazione aveva messo in ombra. Ma vedrete che la Lega recupererà quegli imprenditori che il decreto ha messo in sofferenza. Il terreno sarà la detassazione e l'ambito la legge di bilancio. Avevano ragione Grillo e Gianroberto Casaleggio, che hanno sempre ritenuto che l'alleanza con la Lega fosse l'unica possibile. Il futuro? Io penso che il movimento sia destinato comunque a morire: sia se falliamo, sia se avremo successo. Noi, compiuta la nostra missione lasceremo. Per cui noi pensiamo solo alle cose da fare e con la Lega è più semplice. Fraccaro per trovare un'intesa con il Pd sul Csm è diventato pazzo: lì dentro c'erano quattro posizioni diverse. Mentre avete visto che pure Salvini e la Raggi vanno d'accordo!? Anche sull'immigrazione, noi dobbiamo tenere conto di ciò che pensa il Paese, che non è quello dei radical chic, ma è quello che trovi nei bar».
Cambi scena e trovi anche il leghista che svela una suggestione che nella Lega è ancora considerata un'eresia: «l'irreversibilità» dell'alleanza gialloverde. Osserva Luca Paolini, deputato del Carroccio delle Marche: «Sia noi che loro cambieremo, perché non c'è alternativa a questa alleanza. Loro, piano piano, stanno mutando posizione sulla Tav, sulla Tap, sulla legittima difesa. Noi siamo più disponibili sul decreto dignità. Avviene ma non si dice: Cesare mise da parte il Senato e diventò dittatore senza dirlo. Lo fece e basta. E vedrete che sull'altro versante nascerà qualcosa, un partito alla Macron. È inevitabile perché ora il tavolo è monco».
«L'alleanza irreversibile»: lì, dentro il governo, cominciano a crederci. Sull'altare della governabilità sono tutti pronti a perdere pezzi d'identità. Salvini non si è tirato indietro sul decreto dignità che ha fatto insorgere gli imprenditori del Nordest, da sempre serbatoio elettorale della Lega: «Non può far finta di niente è la reprimenda che il leader leghista si è beccato dal presidente di Confindustria Venetocentro, Massimo Finco in cambio di un barcone di immigrati in meno». Di Maio sull'immigrazione copre i leghisti: solo il presidente della Camera Roberto Fico protesta, ma balla da solo. Salvini che pure attacca la magistratura per le inchieste sul Carroccio, sulla proposta del Guardasigilli Bonafede, di bloccare la riforma delle intercettazioni, resta muto. Come pure, per dare il via libera alla nomina del candidato grillino, Fabrizio Palermo, come amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti, al leader leghista è bastato solo conoscerlo e la parola di Di Maio.
Appunto, «l'alleanza», corroborata dai sondaggi (entrambi i partiti di governo sono accreditati sopra il 30%) e dall'occasione di ridisegnare con le nomine la geografia del Potere nel Paese, comincia ad essere considerata dai protagonisti del «contratto» una soluzione non solo per l'oggi, ma anche per il domani. «Attrazione sessuale del Potere»: è la definizione con cui Andrea Manzella, direttore del centro studi sul Parlamento della Luiss con una lunga esperienza del Palazzo, descrive questo processo per cui leghisti e grillini sono pronti a cambiare se stessi pur di radicare il loro potere nel Paese. È un vizio antico, che ha caratterizzato altre stagioni. Il controllo della Rai, vale più degli imprenditori del Nordest. Poi, poco importa se l'ad sarà Fabrizio Salini, su indicazione grillina. O se la direzione del Tg1 i pentastellati la vorranno per un loro candidato, o almeno condivisa. Alla fine un'intesa si troverà, perché c'è posto per tutti. Il Potere unisce: è il più efficace dei collanti in politica. E omologa. Pure le polemiche più dure vengono assorbite. «Noi siamo diventati il nemico pubblico numero uno», constata il capogruppo dei deputati leghisti, Riccardo Molinari, fresco di una condanna in appello per «rimborsopoli», ma neppure la rabbia mette in dubbio per lui l'alleanza con quei «giustizialisti» dei 5 stelle. Né Claudio Borghi, l'economista leghista da sempre paladino dei piccoli e medi imprenditori, si scompone di fronte alla loro protesta contro il decreto dignità. «Li faremo contenti si limita a dire con la detassazione. Alla fine si faranno due conti». Già, i tavoli sono tanti. «Da qui alla fine dell'anno fa presente ancora Buffagni verranno al pettine dossier importanti come Telecom, Generali, Mediobanca, Unicredit che rischia di finire in Francia. E noi diremo la nostra». E con il Potere il legame si fortifica: ormai Salvini, se per tattica o strategia poco importa, non ha più problemi a dire che alle regionali in Basilicata e in Abruzzo i leghisti potrebbero allearsi con i grillini.
Ma se l'alleanza gialloverde è davvero «irreversibile», anche per l'opposizione è arrivato il tempo di farsi due conti. «La Lega insinua il piddino Rosati è ormai un'altra cosa. Io lo vedo in aula: anche il più sgarrupato dei grillini viene applaudito dai leghisti. Ormai è un sodalizio. La sinistra dei 5stelle? Se c'è, è solo Fico». Sull'altro versante il discorso non cambia. Sbotta Georgia Meloni: «Se uno mette Alessandro Rivera alla direzione generale del Tesoro, cioè l'uomo che ha scritto materialmente il decreto salvabanche, di che parliamo?! O, ancora, se nomini Salini, l'organizzatore della Leopolda, amministratore della Rai, è il segno che svendi pezzi della tua identità». Mentre a Renato Brunetta non resta che rincarare. «Loro osserva - perdono identità, ma non i consensi. Motivo? Non c'è un'alternativa che metta il Paese di fronte a questa realtà. L'unica strada passa per la rottura con Salvini».
Magari il paradosso è proprio questo: grillini e leghisti perdono pezzi della loro identità, ma l'opposizione non ne ha alcuna. «Dovremmo trovarci almeno dei nemici», è il commento laconico del coordinatore toscano di Forza Italia, Stefano Mugnai.
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