In pubblico, il Pd si esercita a litigare sul fondamentale tema: popcorn sì, popcorn no. Una battuta attribuita dai retroscena a Matteo Renzi, e in serata smentita («Ora tocca a Salvini e Di Maio, comprate i popcorn»), suscita la severa riprovazione del reggente Maurizio Martina: «Altro che popcorn, c'è da essere preoccupati. Non scherziamo». Anche dal ministro Andrea Orlando arriva una censura anti-cereali: «A me i popcorn non piacciono, tanto meno coi film splatter come questo». Replica a muso duro il renziano Michele Anzaldi: «Nessuno mangia popcorn ed è sorprendente che nel Pd ci sia chi è riuscito ad inventarsi l'ennesima polemica per spaccarsi su giornali e tg e attaccare Renzi».
In privato, però, tutte le anime dem si interrogano ansiosamente: ce la farà a nascere questo benedetto governo giallo-verde, che sarà pure orribile e che ci farà ridere dietro da tutta Europa, ma che averebbe l'indubbio vantaggio di evitare le elezioni bis e di regalare al Pd tempo e ruolo di opposizione? Voci confuse dal mondo grillo-leghista, ieri pomeriggio, alimentavano preoccupazioni al Nazareno: «Sono in alto mare, potrebbero non farcela, potrebbe ancora precipitare tutto», confidavano i bene informati. «Di Maio non sta nella pelle e si vede chiaramente che vuole andare al governo - dice Lorenzo Guerini - ma dentro i Cinque Stelle la tensione è altissima. E la ragione è comprensibile: questi erano arrivati ad aprire finalmente la famosa scatoletta di tonno e non vedevano l'ora di affondarci i denti. E invece, dentro, ci hanno trovato un Caimano che rideva sotto i baffi». La metafora è inquietante, ma assai efficace.
Dal giorno delle dimissioni di Renzi, all'indomani dei risultati del 4 marzo, il Pd è in mezzo ad un guado: senza una leadership riconosciuta, senza una linea condivisa, senza un'agenda fissata per uscire dall'impasse. E fino a quando non sarà chiaro come e se si chiude la partita del governo, sarà difficile fare piani. Per ora, l'unica scadenza interna è quella dell'Assemblea nazionale convocata per il prossimo 19 maggio. Ma l'ordine del giorno è tutt'ora incerto: un conto infatti è se i due neofiti gialloverdi si schiantano contro il muro e il Paese precipita verso le urne, nel qual caso il Pd dovrà attrezzare in tutta fretta una «cabina di regia» che si occupi di liste e campagna elettorale. Se invece il governo partirà, lo scenario sarà tutto diverso: «L'assemblea dovrà necessariamente convocare un congresso, da tenere tra ottobre e gennaio. Un congresso vero, in cui si individui un leader e ci si dia una piattaforma politica e un profilo di argine ai populisti», spiega un dirigente. Nel frattempo, servirà un organo di garanzia a presidio del percorso congressuale: potrebbe restare lo stesso Martina (a patto che si impegni a non candidarsi poi alle primarie) oppure un renziano di mediazione come Lorenzo Guerini. In ogni caso dovrà essere una scelta condivisa.
Più complicata (soprattutto per Renzi) la partita congressuale: l'ex premier ha escluso di candidarsi, ma gli manca un nome forte da mettere in pista. «Alla fine l'amaro calice toccherà a Graziano Delrio», prevede un renziano di rango.
Un nome di cui molto si parla, e su cui si appuntano le speranze del fronte anti-renziano, è quella di Nicola Zingaretti, che però non vuole il marchio di candidato «della sinistra»: o avrà anche l'imprimatur dell'ex premier, o difficilmente scenderà in pista.
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