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Poveri iraniani, ci manca solo il drone Dibba

Dalla vigilia di Natale in casa Magalli al volo a Teheran. Di Battista: serve la diplomazia

Poveri iraniani, ci manca solo il drone Dibba

Siamo spaventatissimi di saperlo in volo per l'Iran, ma siamo ancora più spaventati per l'Iran che davvero non merita questa ulteriore punizione dal cielo, il «drone» Alessandro Di Battista, la bomba H che Luigi Di Maio aveva assicurato non volere mai utilizzare: «È arrivato il momento di scommettere sul dialogo, sulla diplomazia e sulle soluzioni politiche». Insomma, avevamo sperato, fino alla fine, che l'espulsione di Gianluigi Paragone, suo devoto staffiere che in Italia sta lottando contro un clamoroso errore giudiziario a suo dire alla Enzo Tortora («Il M5s mi dovrà chiedere scusa)», potesse fargli cambiare idea su questo viaggio destinato sì a capovolgere il giornalismo («Manderò i miei articoli, le mie considerazioni»), ma anche a complicare in maniera irreversibile lo scenario già esplosivo del Medio Oriente: «Arrivo. Preparatevi!».

Reduce dalla cena del 24 dicembre con Giancarlo Magalli e famiglia («sua sorella Titti è molto amica della mia figlia maggiore», ha rivelato lo stesso Magalli a «Un giorno da pecora», svelando anche che ha portato un ottimo baccalà mantecato), dunque, è in partenza. Stravolto dall'esito del raid statunitense che ha definito «stupido e vigliacco», in una lettera d'ingaggio pubblicata su Facebook, Di Battista ha infatti annunciato la decisione di partire per Teheran dove si aspetta «un'opinione pubblica ricompattata a sostegno del governo»; «un paese dove si vive in modo diverso ma che non ha mai rappresentato una minaccia per l'Italia». Avete capito: l'Iran è il Paese che ama. Certo, ci aveva abituato alle sue fughe sudamericane, a quelle «spremute d'umanità», irresistibili pensieri della motocicletta, tipo questo: «Ho sentito dire da qualche parte che gli esseri umani sono angeli con una sola ala, possono volare solo restando abbracciati. Ecco, noi possiamo salvarci da soprusi e ingiustizie restando abbracciati».

E però, mai, prima d'ora, aveva scelto l'opzione da paracadutista, la spedizione in teatro di guerra («Il Medio Oriente è una polveriera» ha scritto Di Battista nei suoi taccuini) che intimidisce chiunque meno che lui, che aveva già perlustrato l'area, ma per troppi pochi giorni, da qui il ritorno perché «troppo poco per vedere, capire e raccontare». In verità, prima dell'Iran, voleva restituirci, a distanza di anni e un po' come Pier Paolo Pasolini, l'odore dell'India. Era il periodo in cui lo dominava la passione della falegnameria e doveva difendersi di fronte agli attivisti e ai parlamentari del M5s che avevano cominciato a chiamarlo «Er sommergibile» per la sua capacità di scomparire non appena si presentavano i problemi; in quel caso il disastro delle elezioni Europee: «Mi mancano le piazze, mi mancano gli attivisti. Però io devo seguire la mia strada. Ci ho riflettuto».

In queste ore ha scelto. Non si può che volergli bene e augurargli il futuro che Leo Longanesi augurava a tutti i grandi inviati speciali: «Spiacenti.

Il nostro inviato speciale si è smarrito causa pioggia».

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