Milano «È inutile continuare a interrogarsi sulle nuove droghe - sostanze stimolanti, sedative, allucinogene o cannabinoidi sintetici - che comunque mimano l'effetto di quelle vecchie. La vera domanda è un'altra: perché così in tanti, giovani e vecchi, avvertono la necessità impellente di essere diversi da quello che sono in realtà? E pretendono di restare svegli più a lungo, lavorare di più, essere più empatici e ottenere prestazioni sportive o sessuali di maggiore impatto? Siamo cambiati noi, non le droghe. Che ormai sono un bene di consumo. E purtroppo non fanno più paura».
Riccardo C. Gatti si schernisce un po' davanti alla sua esatta ma complicata qualifica: direttore del Dipartimento interaziendale prestazioni erogate nell'area dipendenze e direttore Uoc (Unità operativa complessa) programmazione studi e ricerche nell'area dipendenze dell'Azienda socio sanitaria territoriale Santi Paolo e Carlo. Titoli a parte, quando si parla di stupefacenti e tossicodipendenza Gatti è sempre il primo a essere interpellato trattandosi di uno dei più quotati esperti europei. In particolare perché non ha mai dichiarato che contro la droga bisognerebbe fare di più, per proporre poi rimedi generici. Ed è molto lontano da chi si perde in interminabili dibattiti sulla legalizzazione di una sola sostanza senza vedere la devastazione che tutte le altre droghe, legali e illegali, provocano.
«Il padre di Adele De Vincenzi, la 16enne morta venerdì notte a Genova, ha chiesto il silenzio - continua - e anch'io suggerisco lo stesso. Quando qualcuno infatti muore in determinate circostanze, dopo aver assunto della droga, è automatico pensare che sia stata proprio la sostanza stupefacente a uccidere. E sempre dopo che il fatto è avvenuto, ma non prima. Non si riflette sul fatto che la stragrande maggioranza di chi consuma sostanze stupefacenti - convinto che con le opportune precauzioni permettano di raggiungere determinate prestazioni - non dice mai a se stesso: Mi potrebbe venire un infarto, non pensa mai alla morte. Continua invece a concentrarsi sul singolo episodio senza vedere il tutto. Perché evidentemente è più forte il desiderio di assumere sostanze per diventare altro da ciò che si è in realtà».
Il «tutto» per Gatti è una società che ha fallito.
«Per noi che ci occupiamo di curare solo mettendo insieme forze e competenze - pronto soccorso, servizi per la cura delle dipendenze, Azienda regionale emergenza urgenza, i dipartimenti di salute mentale e il nostro dipartimento - così come stiamo facendo a Milano, si può tentare di arginare le conseguenze dell'utilizzo di queste sostanze anche creando sistemi di osservazione e allerta locali per intervenire il più velocemente e il più correttamente possibile nelle situazioni critiche - conclude Gatti -. Tutto questo è necessario ma è comunque tardivo, bisogno arrivare prima. Non vorrei essere frainteso, ma all'origine c'è un problema politico di costruzione della società e del ruolo sociale delle persone: i giovani non hanno prospettive, sono indotti a vedere un futuro peggiore del presente, denso di incertezze. Quindi sono spinti a consumare tutto e subito perché domani non si sa. Gli adulti sono consapevoli che professionalmente, a una certa età, saranno da buttare. E tutti stanno cominciando a considerare sempre più normale che in certe situazioni ci si debba alterare.
Singolarmente siamo tutti perdenti di fronte a un mercato aggressivo che cerca di espandersi approfittando della situazione. Anche perché la situazione di stallo rispetto a questo tipo di progettualità a lungo andare finisce per diventare se non preoccupante, sospetta».
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