Quell'Italia romantica in coda per un faro

Da Stevenson a Verne, celebrati come simbolo di pace e solitudine Lo Stato li mette sul mercato: boom di richieste da singoli e associazioni

«Non dire di me che ho rinunciato/alle imprese dei miei padri -scriveva da figlio addolorato Robert Louis Stevenson- e che ho fuggito il mare/le torri che abbiamo edificato e le lampade che abbiamo acceso/per chiudermi nelle mie stanze a giocare con la carta come un bambino» Nell'Ottocento, per due generazioni, gli Stevenson, ingegneri e costruttori, avevano innovato la storia millenaria dei fari come luci nella notte per i marinai, e dopo il capostipite Robert era stato suo figlio Thomas, il padre di quello che sarebbe poi divenuto «Tusitala», il raccontatore di storie, il mago dell'Isola del tesoro, a inventare i prismi azimutali che perfezionarono il sistema lenticolare. Bambino, il piccolo Robert-Louis aveva pensato che il sonno fosse una navigazione nelle tenebre e che solo il lampione alla finestra potesse garantirgli di non naufragare, così come quei fari che andava a ispezionare con l'augusto genitore lungo le infide coste della Scozia. «Il seme brillante della notte» li avrebbe poi definiti, metafora della luce con cui orientava la sua scrittura, sempre accesa nella mente a segnalare con esattezza da dove si partisse e dove si volesse arrivare, l'imbarco e l'approdo.Furono gli etruschi i primi ad accendere fuochi in prossimità delle spiagge, fari-templi che erano grandi falò su pietre sacre. Nel II secolo a.C., quello di Alessandria di Egitto, progettato da Sostrato di Cnido, divenne una delle meraviglie del mondo allora conosciuto e nel Millecinquecento dell'età moderna come guardiano del faro all'estremità del molo di Genova ci sarà uno zio di Cristoforo Colombo, quasi a simboleggiare la sicurezza e l'avventura, la certezza e la speranza, la presenza nel buio di una «lanterna» che segnala terra, pericoli, tieniti lontano, attento, ma anche buona traversata e buona fortuna, amico mioIn Gita al faro, di Wirginia Woolf, la signora Ramsey ammonisce le figlie: «Sempre lì a guardare la stessa onda che si rompe monotona settimana dopo settimana e poi magari viene una tempesta tremenda, e le finestre si coprono di schiuma, e gli uccelli sbattono contro il fanale, e tutto rulla e non si può mettere il naso fuori dalla porta per paura di essere travolti. Vi piacerebbe?». E un faro romanzesco ed è un faro reale, quello di St Ives in Cornovaglia, quello dell'infanzia di Virginia, nuotatrice testarda e anima fragile che in un mare senza luce troverà alla fine la sua quiete. Eppure, basta guardare le foto dei fari dell'estremo ovest della Bretagna, lì dove finisce la terra e comincia l'Oceano, Pierres Noires, Ar-Men, La Jument, Kéreon, immortalati in un giorno di tempesta da Philippe Plisson, «peintre de la Marine», perché la pagina scritta si polverizzi di fonte alla violenza del reale.In un romanzo di Jules Verne, il marinaio Vasquez sceglie di porre un termine alla sua vita vagabonda e avventurosa facendo la guardia all'Isola degli Stati, l'estremità sud-orientale delle Americhe, lì dove Atlantico e Pacifico si confondono: «Che altro potevo desiderare di meglio che essere guardiano di un faro. E di che faro! Del faro in capo al mondo».Ai fari Massimo Dini dedicò, una ventina d'anni fa, un capitolo di Alla fine del mare, un bel libro fatto di coste, acque e isole che varrebbe la pena ristampare e di cui ci siamo serviti per questo breve excursus di luce. Ma il boom di offerte che si è abbattuto sugli undici fari di pregio storico e paesaggistico messi all'incanto dallo Stato sotto forma di affitto cinquantennale, ci dice qualcosa di più rispetto alla suggestione letteraria. Racconta una nostalgia di unicità e solitudine tanto più forte quanto più è stridente il contrasto con la modernità e le facilitazioni della tecnica. Parla al fondo di quel «cuore avventuroso» che sempre e comunque continua a battere nel nostro petto di esseri umani anche se non ne vogliamo tenere conto.

Per quanto travestito da business turistico e/o culturale, esprime un desiderio infantile di meraviglioso, eccentrico, un anelito di diversità e di fuga dalle masse, dal progresso, da una vita interconnessa. Ci dice che c'è più vita nei fari che nei centri commerciali.

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