La chiamano accoglienza. È disumanità

La chiamano accoglienza. È disumanità

N ella polemica politica sull'immigrazione l'attore principale, il migrante, è strumentalizzato. Da una parte è vissuto come un pericolo e dall'altra come una risorsa. Emigrare è un evento traumatico. Il migrante è una persona con una sindrome post traumatica da stress, in particolare quando fugge come accade ora da guerre e genocidi, quando arriva su un barcone dove ha rischiato di morire. Se la sindrome cronicizza l'individuo diventa un alienato. Disturbi fisici, insonnia con risvegli da flashback fino a stati psicotici o dissociativi in cui dominano temi di persecuzione che possono determinare reazioni violente. Altri possono sviluppare uno stato depressivo con conseguente letargia e isolamento sociale. Il disturbo post traumatico può manifestarsi in modo forte o lieve ma rende vano ogni tentativo d'integrazione. Nel nuovo ambiente l'individuo continua ad usare le sue modalità comunicative e la sua lingua. I suoi schemi cognitivi rimangono invariati intrappolandolo in un trascorso che non è più realtà. Abbandonare il passato è possibile soltanto se il presente ha un senso e se c'è una speranza di vita migliore, se è possibile ricostituire dei legami affettivi, se c'è un supporto sociale che garantisce sostegno emotivo e materiale. Dei quattro milioni di italiani emigrati negli Stati Uniti tra il 1880 e il 1915 il 60% fece ritorno in patria. Nonostante fossero salpati con un progetto migratorio realizzabile in un Paese che li accoglieva a braccia aperte, non riuscirono ad adattarsi. Quelli che rimasero avevano una personalità resiliente, un'identità culturale solida cui aggrapparsi ma con un sistema cognitivo flessibile capace di comprendere ed accettare una nuova cultura. Sapevano che avrebbero potuto fare ritorno o fortuna, avevano scelto liberamente ed erano armati di grande volontà. Arrivando nel paese ospitante trovarono un lavoro e una casa, costruirono quartieri in cui incontrarsi per rievocare un passato povero ma senza tragedie. Integrarono nel loro io la vecchia e la nuova identità, diventando italo-americani.

Questi nuovi immigrati fuggono senza sapere cosa accadrà. Non hanno un progetto migratorio né la possibilità di trovare un lavoro e una casa in cui dormire, in un paese che è in crisi economica.

Sono catapultati in un limbo in cui hanno perso la loro vecchia identità e non ne possederanno una nuova. Saranno deculturizzati, periferizzati e marginalizzati. E invece di definirla disumanità la chiamano «accoglienza», senza se e senza ma.

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