L' operazione Fonte di pace ha visto ieri la terza giornata di scontri durissimi fra le forze armate turche, gli alleati arabi e i curdi siriani, in passato al fianco degli Stati Uniti nella guerra all'Isis. Le truppe di Ankara hanno conquistato una dozzina di villaggi sul lato siriano del confine e hanno proseguito più in profondità. Non è ancora chiaro fino a dove voglia spingersi Recep Tayyip Erdogan. Il leader turco ha un grande appoggio popolare in Turchia, ma la comunità internazionale è sempre più allarmata e mobilitata.
Più la campagna si prolunga e aumentano le vittime, più crescono le critiche. Ieri ci sono state almeno 11 vittime civili, mentre le Forze democratiche siriane, a guida curda, hanno subito perdite pesanti, con una trentina di combattenti uccisi. Il ministero della difesa di Ankara rivendica invece l'eliminazione di «384 terroristi» curdi. Ci sono 28 feriti gravi, soprattutto a Ras al-Ain e in un'altra città di confine, Qamishli: qui un'autobomba dell'Isis ha fatto 6 vittime. Alcuni sono pure bambini. È stata anche confermata la prima morte di un soldato turco. La situazione umanitaria è devastante. Per l'Onu 100mila persone sono fuggite di casa. Secondo le Nazioni Unite la fornitura di acqua a 400mila persone è stata interrotta a causa degli scontri.
Ieri la voce del presidente americano Donald Trump si è fatta sentire e ha assunto un carattere diverso rispetto ai giorni scorsi. «Gli Stati Uniti hanno tre opzioni: inviare migliaia di truppe e vincere militarmente, colpire la Turchia molto duramente finanziariamente e con sanzioni o mediare un accordo tra Turchia e curdi», ha chiarito Trump. Esisterebbe infatti secondo fonti interne all'amministrazione una linea rossa da non oltrepassare, ossia «la pulizia etnica» o «l'artiglieria indiscriminata contro le popolazioni civili».
Ma Erdogan, che non sembra impressionato dalla critiche occidentali, risponde ancora no. La sfida, verbale, è soprattutto con l'Ue, che ha minacciato di inondare di profughi se avesse continuato a criticare l'operazione nel Rojava. Ieri è arrivata la reazione di Bruxelles. La Turchia deve capire che «non accetteremo che i rifugiati siano usati come arma per ricattarci», quindi «considero le minacce del presidente Erdogan completamente fuori posto», ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. L'operazione unilaterale della Turchia «si deve fermare», la situazione va risolta «attraverso canali politici e diplomatici», ha precisato. «La possibilità di imporre sanzioni alla Turchia è sul tavolo e l'Ue ne discuterà al Consiglio europeo del 17 e 18», ha aggiunto la viceministra per gli Affari europei francese, Amelie de Montchalin.
Anche il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha espresso la sua «profonda preoccupazione» per la crescente violenza. E l'ambasciatore americano all'Onu, Kelly Craft, ha avvertito che ci sarebbero «conseguenze» se la Turchia non riuscisse a «rispettare le regole, a proteggere le popolazioni vulnerabili, non desse la garanzia che l'Isis non riesca a ricostituirsi». Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha espresso anche lui «serie preoccupazioni» per l'operazione in un incontro con il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. «Si aspettava - ha aggiunto - che la Turchia, membro della Nato, agisse con moderazione».
Il presidente russo Vladimir Putin a un vertice dei leader dell'Asia centrale ha sottolineato invece la l'importanza della sorte dei combattenti dell'Isis nella Siria settentrionale. «Sono stati sorvegliati dalla milizia curda fino a poco tempo fa. Ora l'esercito turco sta entrando nell'area e i curdi stanno lasciando questi campi. I prigionieri potrebbero fuggire.
Non sono sicuro che l'esercito turco sarà in grado di prenderne il controllo», ha poi aggiunto. «Dobbiamo mobilitare i nostri servizi di sicurezza per contenere questa nuova minaccia emergente», ha concluso. Mosca crede che ci siano «migliaia» di combattenti dell'Isis nella regione.
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