Renzi a caccia di voti per la manovra in Senato La conta è già partita

Il nuovo Def sarà il vero banco di prova del governo. Il leader Pd al mercato in Aula

Renzi a caccia di voti per la manovra in Senato La conta è già partita

Centosessantuno senatori, non uno di meno: tanti ne serviranno, a fine settembre, per approvare la nota di aggiornamento del Def.

A Palazzo Chigi e nel Pd già iniziano a fare i conti in vista della ripresa post-agostana, perché quella scadenza sarà la prima tappa, ad alto rischio della via crucis che porterà a fine anno al varo della Finanziaria, ultima scadenza prima dello scioglimento delle Camere, che ci si aspetta ai primi dell'anno. E i conti, al momento, non tornano: la variazione del Def, che deve registrare i nuovi dati (in rialzo) della crescita, dando dunque più spazio di manovra al governo, va approvato con la maggioranza assoluta dei membri delle Camere. Quei centosessantuno voti, allo stato, non ci sono. E lo stillicidio di partenze e addii che sta funestando il versante centrista della maggioranza prefigura uno scenario inquietante da mercato delle vacche: ogni senatore, per concedere il proprio prezioso voto, metterà sul piatto le proprie richieste e alzerà il proprio prezzo. E sarà complicato dire di no. Lo faranno i centristi, certo, ma lo faranno anche a sinistra: Bersani e D'Alema vogliono la rottura con il governo sulla Finanziaria, e sono pronti alle pretese più balorde (tipo la più volte evocata reintroduzione dell'articolo 18) per avere il pretesto. E non si sa se basterà il freno di Giuliano Pisapia, che invece vorrebbe una relazione migliore con l'esecutivo e con il Pd.

Il dilemma davanti al governo è chiaro: tentare di rinsaldare la maggioranza, concedendo biada a destra (Alfano etc.) e a manca (D'Alema etc.), o cercare voti nell'attuale opposizione, aprendo un dialogo con Forza Italia? «È una scelta politica, che deve fare il segretario del principale partito», sottolineano dalle parti di Palazzo Chigi. Rinviando la palla a Matteo Renzi: tocca a lui gestire politicamente la costruzione di una maggioranza sulla prossima manovra economica, il governo si adeguerà lealmente. Anche perché i problemi arrivano anche dall'interno del Pd, dove la minoranza è pronta a giocare di sponda con la sinistra extra-Pd. È stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ieri, a criticare le scelte passate del governo Renzi («Un errore il bonus cultura anche ai figli dei ricchi») e le parole d'ordine del leader Pd, a cominciare dall'abbassamento della pressione fiscale: «È sbagliato promettere una diminuzione delle tasse, non si possono promettere meno tasse per tutti, è solo un altro modo per conquistare del consenso che poi rischia di essere deluso», attacca il Guardasigilli. Secondo il quale «se ci sono margini è bene che siano utilizzati per le fasce di reddito più basso e le imprese in maggior difficoltà».

Consapevole che l'autunno sarà turbolento, e che per il Pd una sconfitta del governo sarebbe una mazzata nei consensi, Renzi ha iniziato a mandare messaggi più concilianti agli alleati, dicendosi «pronto a confrontarsi con tutti sul merito dei problemi».

Intanto, a preoccupare il Pd ci sono anche le prossime elezioni regionali, e in particolare quelle in Sicilia. La parola d'ordine è «coalizione larga», che tenga dentro «da Alleanza popolare a Leoluca Orlando, da Sinistra Italiana ai centristi», spiega il segretario regionale del Pd, l'orfiniano Fausto Raciti. Il problema è che manca il candidato, dopo la defezione di Piero Grasso.

Il presidente del Senato non vuole rinunciare alla prestigiosa poltrona se non in cambio - se dovesse essere sconfitto - di assicurazioni blindate e di alto rango sul proprio futuro, che nessuno è in grado di dargli. Le speranze di convincerlo sono ormai scemate, e infatti Grasso fa sapere che resta lì: c'è troppo bisogno di lui a Roma, assicura.

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