Renzi esce e Calenda entra per affidare il Pd a Gentiloni

Il ministro prende la tessera: "Il leader è a Palazzo Chigi". E non esclude l'ipotesi di votare singole misure del M5s

Renzi esce e Calenda entra per affidare il Pd a Gentiloni

Nella cittadella devastata del Nazareno c'è chi va e chi viene. Ognun parla, e questa è l'aggravante. Il dimissionario Matteo Renzi, dicono, si tiene in «costante contatto» dal suo covo fiorentino; «ben consapevole della situazione», lo descrivono e ci mancherebbe che non lo fosse. Premono le minoranze interne, maramalde, per avere la sua testa e solo a tardo pomeriggio arriverà la certezza che quella testa sul vassoio verrà servita (per quel che vale). Renzi tentenna e non sa se partecipare alla Direzione: «voglio defilarmi con gran serenità», pare siano state le ultime parole ai suoi. Si tratterà però di dimissioni «vere» e, fino all'elezione di un nuovo segretario, ci sarà una gestione «collegiale» coordinata da Martina. Ma intanto Orlando vede nella polemica sull'appoggio a M5s solo un «diversivo» renziano per non parlare della sconfitta e smorza: «Il 90% del Pd è contrario».

Visto che il «capo» sta sereno - e «occuparsi di Renzi è come sparare sulla croce rossa» (così l'ex deputata Argentin) -, occorre però trovare punti fermi per il futuro. Lo farà il ministro Carlo Calenda che ieri, come annunciato, è andato al Nazareno a prendersi la tessera del Pd (in precedenza, ne ha avuta solo una della Fgci). Dicendo la sua sulla possibilità di un appoggio a un governo Di Maio («Se il Pd si allea con M5s il mio sarà il tesseramento più breve della storia»), almeno ha fatto capire che cosa sia rimasto in piedi nel partito acefalo. «Un leader c'è ed è a Palazzo Chigi, fa il presidente del Consiglio». Si manifesta così quello speciale commissariamento di Renzi di cui si avevano avuto segnali già durante la fase finale della campagna elettorale, senza peraltro riuscire a evitare il disastro. Più ancora emerge, adesso, un'idea di leader che non può certo essere il nuovo iscritto Calenda; un vero anti-Renzi nel modo d'essere e di agire. Dunque silenzioso, prudente, responsabile. Difatti Gentiloni c'è, e governa. Proprio ieri dovendo prorogare per qualche mese i capi dei servizi segreti, il premier ha avvisato personalmente gli altri capi di partito. Gesto di cortesia diventato «sospetto» per il leghista Salvini, che ha rilevato uno «strano silenzio» di Di Maio. Alleanza Gentiloni-Di Maio per traghettare il Paese verso il nuovo? L'ipotesi che ha indignato Salvini potrebbe non essere del tutto campata in aria, considerato che nei marosi va avanti solo chi tiene la barra dritta. L'asse tra il premier e il capo dello Stato è evidente e, da quel che si racconta, potrebbe indirizzare verso una soluzione che prevede una normalizzazione dei grillini per gradi. La loro affidabilità verrebbe via via confermata dal perdurare di un «comportamento istituzionale» che fin qui è stato ineccepibile, e quindi suffragata durante l'elezione dei presidenti delle Camere. A quel punto, di fronte all'impraticabilità di ogni altra ipotesi, il mantenimento in vita del governo Gentiloni potrebbe diventare il banco di prova definitivo, all'insegna del pragmatismo e con una chiamata di responsabilità indirizzata in primis verso la prima forza politica del Paese: M5S appunto. Partita rischiosa, delicata che, però, ha cominciato a muovere i primi passi con le aperture di credito di Confindustria e Marchionne.

E se ieri Chiamparino constatava che «non è il Pd che deve spostarsi verso M5s, lo hanno fatto gli elettori», Calenda si correggeva rispetto alla «distanza immensa» con M5s. Fiducia a un loro governo no, spiegava. Però «se il M5s presentasse un piano Industria 4.0 rafforzato, direi: votiamolo...».

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