Roma - Si potrebbe cominciare dalla storiella del cane che morde l'uomo. Matteo Renzi che difende la Boschi non fa notizia, certo. Eppure il fatto che sia dovuto intervenire il premier Paolo Gentiloni, in qualità di «capo» della Boschi a Palazzo Chigi, ma ancor più di «dirigente politico del Pd», come ha tenuto a precisare, fa una certa impressione. Smentisce sì le voci di un distacco appariscente tra i due (la partita in realtà si gioca con arsenico e vecchi merletti), ma rende anche palese quanto il segretario del Pd sia sbandato, afflitto, in una rotta che alle elezioni potrà diventare una Caporetto definitiva.
Colpito a morte dai sondaggi (il caso Boschi sta portando il Pd verso quota 20 per cento), affondato dall'intreccio bancario che lo perseguiterà finché campa, ma ora privo sempre di quella agile giocondità che ne costituiva una carta vincente. È stato come se il leader del Nazareno si rendesse conto d'aver bisogno, oggi più che mai, dell'autorevolezza e credibilità conquistate da quell'altro, il Paolo «del quale ero così convinto da chiedergli di fare il ministro degli Esteri» (lo rivendica ad ogni intervista), per dare degna copertura politica all'indifendibile Mariaele finita sotto scacco.
Potrebbe sembrare semplice sfumatura, se non avesse fatto un'impressione ancora maggiore la performance di Matteo l'altra sera a Piazzapulita su La7. Non per le cose dette (sentite e strasentite), bensì proprio per l'aria sempre più dimessa, tra il pulcino bagnato e il compagnuccio di scuola dispettoso fino al rancore, fino al vittimismo spinto. Al punto da arrivare, a un certo punto della trasmissione, a dare per certa l'antipatia nei suoi confronti, sia da parte del conduttore (Corrado Formigli), sia degli italiani. «Ma perché vi occupate tutti di quel che faccio? Ma se vi sto antipatico, perché non mi lasciate stare?», è sbottato con un tono che invece di risultare convincente riusciva a essere solo patetico. Di conseguenza, ne seguivano una serie di battute che tendevano alla tristezza. «Il voto è importante, ma non dico: se perdo mi dimetto, perché l'ultima volta ha portato male...». Oppure l'ammissione: «Temo solo che il Pd sia rassegnato, serve grinta, entusiasmo». Persino una prima inversione di tono nei confronti dell'arcinemico D'Alema: «È più serio chi come noi e D'Alema litighiamo e facciamo chiarezza rispetto a Berlusconi e Salvini che litigano e si mettono assieme per le elezioni...».
Il Renzi che faceva del suo personalismo spinto e proposto in tutte le salse, il Renzi che aveva risposte su tutto e ricette promettenti per qualsiasi problema orbeterracqueo s'è trasformato ormai in quello che non smette di rinvangare il passato recente di gloria, di Obama e onori, e finisce col prendersela con il partito di Grasso pure perché «non possiamo trasformare la democrazia italiana in un insieme di partiti con un nome e un cognome, noi mettiamo Pd perché siamo una comunità...».
Più che un cambiamento di personalità mostrato ad hoc per le elezioni, forse siamo di fronte a una metamorfosi assai più profonda, che allude al declino, al tramonto precoce, all'italiano medio smarrito perché ha perso il biglietto fortunato della lotteria.
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