Renzi teme di essere tritato dal frullatore di Palazzo

La liturgia dell'establishment che molla i premier si ripete: ecco perché Matteo adesso vuole restare

Renzi teme di essere tritato dal frullatore di Palazzo

A Franco Carraro, già patron del Coni e gran conoscitore del Palazzo, bisogna dare retta, quando, reduce da una missione esplorativa nelle stanze che contano, riporta il contenuto del primo colloquio tra il capo dello Stato e il premier dimissionario.

«Mattarella - racconta - ha messo Renzi di fronte a due opzioni: o mi dai tu il nome di una persona di tua fiducia per fare il governo con l'attuale maggioranza; o io scelgo la strada del governo del Presidente, mando una persona alle Camere e voglio vedere chi del Pd gli voterà contro». In sintesi: il primo confronto con il presidente è stato una mezza doccia fredda per Matteo Renzi, animato da una gran voglia di revanche elettorale. E lo stesso Carraro, che pure è sempre stato un estimatore del premier mostra un pizzico di delusione: «Renzi dovrebbe stare fermo un giro. In fondo nel pugilato dilettantesco se subisci un ko non puoi tornare sul ring prima di tre mesi per non farti male».

Appunto, le regole del Palazzo in questi casi prevedono una fermata ai box. Ma Renzi ha capito che la «sosta», soprattutto per lui, può essere fatale. Motivo per cui nel secondo colloquio si è presentato da Mattarella con una contromossa che rispetto ai tanti «me ne vado», «lascio la politica» detti un'ora dopo la sconfitta referendaria, rappresenta una tripla giravolta. Ha avanzato la proposta di un governo di responsabilità nazionale appoggiato da tutte le forze politiche, cioè un'ipotesi che non sta né in cielo, né in terra per Grillo, Berlusconi, Salvini e la Meloni. Il tipico specchietto per le allodole che nei riti della politica deve accompagnare la proposta vera, cioè un governo con la maggioranza attuale, che vada alle urne appena approvata la nuova legge elettorale. Un esecutivo che nei ragionamenti di Renzi al Quirinale dovrebbe essere guidato da un nome prima di tutti gli altri, il suo. Solo che per ridurre la figuraccia dell'«addio» trasformato in 24 ore in un «arrivederci», il premier vorrebbe quasi essere pregato, cioè non essere reincaricato ma continuare per l'ordinaria amministrazione (Mattarella ha già risposto picche) o, ma è ancora dubbioso, essere rinviato alle Camere dal capo dello Stato, con il profilo dell'unico governo per il momento possibile. Naturalmente tutti hanno mangiato la foglia, dentro e fuori il Pd: Renzi vuole restare ma non sa come fare. «Ma non aveva dato la parola, che si sarebbe dimesso», è il sarcasmo di Roberto Speranza, della minoranza Pd. «Quello pensa ancora a se stesso, è sicuro», ha sentenziato Massimo Mucchetti. E mentre Renato Brunetta ha cominciato a lanciare anatemi ogni ora contro la permanenza di Renzi a Palazzo Chigi, Quagliarello ha cominciato a vedere il lato buono per l'opposizione di una simile operazione: «Se rimane al governo nel giro di due mesi c'è la scissione nel Pd».

Ma perché il rottamatore, il segretario del Pd che ha cavalcato i miti dell'anti-casta, che ha sempre detto di preferire i tornei alla play station con i figli alle riunioni di consiglio dei ministri, sta immaginando (sempre che ci riesca) di incollarsi alla poltrona? Semplice: Renzi comincia ad aver paura di quell'establishment che ti loda e ti imbroda fino a quando sei vincente, ma che, in caso di sconfitta, ti tritura un minuto dopo. La sua è una vera tragedia che, per citare la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giovambattista Vico, richiama le esperienze di Silvio Berlusconi. In fondo le liturgie con cui l'establishment ti ingoia sono sempre le stesse. Le proposte di Mattarella (cioè il governo guidato da un uomo di fiducia del premier uscente o il governo del presidente) già sono state adottate con successo in passato per detronizzare il Cav. Scalfaro, ad esempio, chiese a Berlusconi un nome di fiducia come successore quando, per il ribaltone della Lega, andò in crisi il suo primo governo. Il Cav fece il nome di Lamberto Dini, che lo tradì un minuto dopo: doveva durare pochi mesi, ma l'uomo di fiducia (si fa per dire) ci prese gusto e andò avanti per quasi un anno e mezzo. Certo Renzi potrebbe fare i nomi di Delrio o di Gentiloni. Più difficilmente Franceschini, troppo autonomo, esperto nell'arte del cambio di cavallo e con uno spiccato istinto di sopravvivenza. Ma vatti a fidare! «Di Palazzo Chigi - è la battuta ironica del premier dimissionario - ci si innamora». L'altra opzione, quella del «governo del presidente», l'ha utilizzata, invece, Giorgio Napolitano per far fuori il Cav: mise in campo Mario Monti che guidò il governo fino alla fine della legislatura. In questo caso, seguendo lo stesso schema, Mattarella potrebbe mettere in pista Grasso o Padoan. Ma i risultati potrebbero essere gli stessi di quelli del governo Monti: in quel caso nel giro di un anno il M5S passò dall'8 al 25%.

E già, Matteo Renzi è entrato nel frullatore del Palazzo. Un meccanismo spietato, che ha un unico obiettivo: piegare il premier intemperante, fuori dagli schemi, alle sue regole. Un sistema spietato che non si esaurisce nel quadrilatero Quirinale-Camera-Senato-Palazzo Chigi. La prima botta al premier questa volta, infatti, è arrivata dalla Consulta che ha fatto sapere che il giudizio sull'Italicum arriverà il 24 gennaio: la sentenza doveva essere pronta per ottobre, è stata rinviata all'indomani del referendum e, adesso, non arriverà prima di due mesi. Un paradosso se si pensa che la legge pretenderebbe che il nostro Paese sia messo sempre nelle condizioni di poter votare. Se si tiene conto della situazione, infatti, sembra che la Consulta sia sulla luna: in termini teorici l'Italicum c'è, ma è sub judice della Consulta, per cui se si usa c'è il rischio di eleggere un Parlamento che poi potrebbe essere definito incostituzionale come l'attuale. Insomma, quel ritardo ha fatto saltare la strategia di Renzi delle «elezioni subito». Una mossa che ha mandato fuori dai gangheri i renziani: «Sono cose che succedono solo in Italia», è esploso il senatore Stefano Esposito. Ma è la liturgia spietata del Palazzo. «La verità - confida il sottosegretario Luciano Pizzetti, regista dell'esame parlamentare della contestatissima riforma - è che lì hanno seguito il suggerimento di qualcuno». È inutile chiedere il nome del suggeritore agli esponenti del Pd. Più facile tirarlo fuori dai verdiniani, che hanno meno cautele. «I nomi sono due - ironizza il senatore Enrico Piccinelli - e li sanno tutti: Mattarella e Napolitano. Il primo è stato uno di loro, il secondo li ha eletti».

Gira che ti rigira il presidente emerito viene sempre tirato in ballo. Potrebbe essere definito il notaio dell'establishment, il gran Maestro delle liturgie istituzionali, mosso da una sorta di coazione a ripetere nel far fuori premier inclini alle elezioni anticipate. Ieri è salito sul Colle e si è trovato perfettamente d'accordo con l'attuale presidente. Se Mattarella non vuole le urne per il ruolo che ricopre, Napolitano le rifugge di natura, le schifa, per lui il suffragio universale è un difetto della democrazia: la scelta propugnata da Renzi - ha annunciato con la consueta solennità - sarebbe un errore. E di conseguenza si è mosso per mettere in moto l'altro meccanismo con cui l'establishment detronizza i premier che aspirano al «redde rationem»: dividere la maggioranza che li sostiene, come si dice nel gergo delle stanze del Potere, «per farli ragionare». Per continuare con i paragoni col Cav, Napolitano ha una lunga esperienza nel settore: provocò il divorzio tra Berlusconi e Fini nel 2010, promettendo a quest'ultimo la presidenza del Consiglio. Così, mentre Mattarella ha esercitato la «moral suasion» verso gli ex-democristiani come Franceschini, Napolitano ha utilizzato tutto l'ascendente che ha con gli ex-ds: per ora il principale pesce caduto nella rete è il ministro della Giustizia, Orlando. Ma la pesca sarà sicuramente ricca perché l'esca è efficace: in Parlamento nessuno vuole lasciare prematuramente il seggio. Del resto i gruppi parlamentari del Pd sono nati con le stigmate di Bersani, ma sono diventati di colpo renziani quando il segretario del Pd, dopo aver fatto fuori Enrico Letta, per entrare a Palazzo Chigi gli ha promesso un governo di legislatura. Per cui gli avversari di Renzi hanno buon gioco ad usare contro il premier le armi di cui sono stati vittime. E il cambio di vento è sotto gli occhi di tutti. «Tutti chilli che stanno a prora vann'a poppa», osserva sarcastico il bersaniano Miguel Gotor, parafrasando un vecchio proverbio napoletano. Una realtà che neppure il renziano Tonini si nasconde: «Quando il gatto è ferito, i topi ballano». Avviene non solo nel Pd ma anche nelle periferie della maggioranza. Nella direzione del partito di Alfano, nessuno ha seguito il ministro dell'Interno nell'idea di elezioni anticipate a febbraio: è come se lui avesse detto andiamo a Milano e gli altri avessero preso la strada per Napoli. «Quello si è accordato con Renzi - è la battuta velenosa di Formigoni - per entrare nelle liste del Pd e vuole che noi ci immoliamo». Più o meno la stessa aria si respira dalle parti di Ala. Sulla legge di bilancio il senatore Vincenzo D'Anna ha votato platealmente contro il governo sotto gli occhi di Verdini. «Si sta formando un nuovo gruppo - racconta Piccinelli - che mette insieme pezzi di verdiniani, di Ncd, di Udc per far capire allo stupidotto che non siamo carne da dare ai cani».

Lo «stupidotto» è Renzi che vuole andare alla guerra facendo finta di non sapere che metà dei suoi soldati sono mercenari. Truppe messe insieme con le lusinghe di Lotti e che ora sono sottoposte alle lusinga più semplice: durare. È il meccanismo con cui il Palazzo ha già triturato in passato il Cav e altri. Per cui alla fine a Renzi non rimarrà che restare al suo posto garantendo quella legislatura che voleva interrompere, rinunciando all'immagine del «rottamatore» per guadagnarsi un posto fisso nella nomenklatura.

L'alternativa è lasciare la poltrona ad un altro, che farà più o meno la stessa cosa e, magari, complotterà per togliergli anche quella di segretario: già gira l'abbinata Franceschini premier, Orlando segretario del Pd. È la dura legge del Palazzo.

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