A firmare l'accordo, l'8 dicembre del 1987, furono Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Davvero altri tempi: da ieri il trattato sulle forze nucleari intermedie, in sigla Inf, ha cessato ufficialmente di esistere. A dare la disdetta era stato in febbraio il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. «Da anni la Russia lo infrange in modo sistematico e senza scrupoli», aveva detto. Scaduto il periodo di sospensione, la rottura è diventata definitiva. Invano il vice ministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov, ha proposto una moratoria. «La responsabilità è solo della Russia», gli ha risposto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.
L'intesa aveva chiuso un capitolo tra i più roventi della guerra fredda missilistica giocata sul terreno europeo. La Russia aveva schierato i micidiali SS20, la Nato, tra le proteste di piazza e la mobilitazione della sinistra, aveva risposto con i Pershing II. Il trattato, siglato dopo il decisivo e storico vertice di Reykiavik, aveva proibito la produzione e il dispiegamento di missili lanciati da terra, a corto e medio raggio, con una distanza di impiego tra i 500 e i 5.500 chilometri.
L'accordo era di assoluto rilievo in quel momento, ma ha perso significato con il tempo. Negli ultimi dieci anni la Russia ha investito somme enormi in sistemi missilistici non contemplati dal vecchio Inf: missili da crociera lanciati dagli aerei (Ch-101/102), dal mare (Kalibr, usati con successo in Siria, come ovvio senza testate nucleari), o missili di portata più ridotta ma che, stazionati nell'enclave di Kaliningrad, hanno lo stesso effetto dei missili a raggio intermedio. A partire dal 2013 a guastare i rapporti tra l'ex Unione Sovietica e gli Stati Uniti è intervenuto un elemento ulteriore: gli analisti del Pentagono (ma anche quelli indipendenti) hanno iniziato a raccogliere indizi sempre più circostanziati sullo sviluppo di un nuovo razzo basato a terra e con portata di 1.500 chilometri, conosciuto con il codice SSC-8 (la Russia nega che questo tipo di vettore abbia un raggio d'azione così ampio).
I primi a contestare ai russi la diretta violazione del trattato Inf furono gli uomini dell'amministrazione Obama e non mancarono le voci di chi avrebbe voluto già allora denunciare l'intesa del 1987. In quel momento prevalse però l'esigenza di mantenere i buoni rapporti con l'Europa, da sempre contraria a una rottura. Bruxelles e i governi del Vecchio Continente avrebbero preferito una rinegoziazione che servisse anche a imbrigliare il più recente orientamento strategico del Cremlino, basato su piani offensivi regionali che prendono di mira in prima battuta Ucraina e Paesi Baltici.
Trump non si fa troppi problemi nell'urtare la suscettibilità europea e non ha avuto dubbi nella denuncia del trattato. Dal punto di vista americano il problema più serio oggi non è tanto la Russia ma la Cina (fino a qualche anno fa praticamente irrilevante sul piano militare). E non è un caso che ieri una nota del Dipartimento di Stato auspicasse «l'apertura di un nuovo capitolo dando il via ad una nuova era che vada oltre i trattati bilaterali del passato».
Almeno dal punto
di vista simbolico comunque l'Europa ha perso il suo scudo protettivo, anche se Stoltenberg ha gettato acqua sul fuoco: «La Nato non vuole una corsa agli armamenti e non ha intenzione di dispiegare nuovi missili nucleari».
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