Davide Zamberlan
Numeri inquietanti che fanno intuire quanto poco avessero compreso gli Stati Uniti e il mondo occidentale delle potenzialità perverse dei social media nell'arena politica.
Sono quelli presentati ieri alle commissioni d'inchiesta del Senato degli Stati Uniti da Facebook, Twitter, e Google. E i numeri che i giganti social hanno illustrato sono ben più gravi di quanto inizialmente sospettato: sarebbero infatti 126 milioni (milioni, esatto!) gli americani che avrebbero visto i contenuti a sfondo politico sponsorizzati da account riconducibili alla Russia. A fronte di una stima iniziale che parlava di 10 milioni di utenti. Un abisso di differenza. YouTube ha invece riferito di oltre 1100 video che hanno accumulato oltre 300mila visualizzazioni, mentre Twitter ha parlato di più di 2700 profili legati ad agenti russi, ora chiusi, che nel periodo da settembre a novembre 2016, quindi immediatamente prima dell'elezione presidenziale, hanno twittato 130mila messaggi. La stessa Twitter ha anche individuato oltre 36mila account automatici che hanno divulgato 1,4 milioni di tweet manipolatori, per circa 288 milioni (ancora, milioni!) di visualizzazioni. Una Caporetto, si potrebbe definirla in questi giorni di ricorrenze.
Nonostante questi numeri e alcuni account di Google riconducibili a Internet Research Agency, una società con sede a San Pietroburgo, il governo russo continua a professare la propria innocenza. «Fantasie» le ha definite il ministro degli esteri di Mosca, Lavrov, che ha ribadito come non ci sia alcuna prova del coinvolgimento russo nelle elezioni americane e europee. Così come non ci sarebbe prova alcuna del coinvolgimento della Russia nelle vicende di lunedì, gli arresti di Manafort e Gates e le ammissioni di Papadopoulos: sono «inchieste interne americane che non ci coinvolgono», ha commentato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Che ha aggiunto: «Speriamo che questa vicenda non contribuisca agli sforzi per far montare l'isteria russofobica che è già a livelli stellari».
Difesa scontata da parte russa, ira rabbiosa altrettanto scontata da parte di Trump, che sin dall'alba di lunedì - secondo quanto riportato dal Washington Post - avrebbe seguito alla televisione gli sviluppi del Russiagate, chiuso nelle sue stanze private alla Casa Bianca. E pronto a ribattere colpo su colpo. «Non c'è COLLUSIONE!», ha twittato il presidente riferendosi al fatto che le accuse a Manafort e Gates riguardano affari precedenti la campagna elettorale. E riducendo il ruolo di Papadopoulos: «Coffee boy» e «bugiardo», lo ha definito in altri tweet, riducendone il ruolo nell'ambito della campagna. Anche se in un'intervista al Washington Post nel 2016 il presidente lo citava tra i consiglieri di politica estera che lo stavano aiutando a definire l'agenda. Assieme a Carter Page, altro consigliere che ieri ha affermato in un'intervista alla Msnbc che potrebbe aver scambiato delle email con Papadopoulos su questioni legate alla Russia. Potrebbe. Ma non è nella sua cerchia che si deve cercare il marcio, ha continuato a sostenere il presidente: «Controllate i DEMOCRATICI!», ha twittato, lì c'è «la storia più grossa», riferendosi alle dimissioni di Tony Podesta, finito nelle maglie dell'inchiesta per il ruolo ricoperto dalla sua azienda in attività lobbistiche a favore di un'organizzazione ucraina vicina a Viktor Yanukovych e ai russi. Tony, fratello di John, presidente della campagna elettorale della Clinton.
Il cambio di passo nell'indagne di Robert Mueller potrebbe causare un effetto domino: Paul Manafort, Michael Flynn, Jared Kushner, Donald Trump Jr., portando lo scandalo del Russiagate direttamente alla Casa Bianca e al presidente. Su cui secondo i media liberal aleggerebbe lo spettro dell'impeachment. Paul Manafort, l'ex regista della campagna di Trump, agli arresti domiciliari per i dodici capi d'accusa spiccati dal procuratore speciale, è la prima pedina. Mueller spera che Manafort collabori per evitare il rischio di decine di anni di carcere. Il punto è che Manafort è tra gli ultra-lealisti di Trump e potrebbe essere pronto ad immolarsi piuttosto che innescare il temuto effetto domino. Lo stesso potrebbe fare l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn che per molti sarà il prossimo a finire nel mirino di Mueller. Flynn sin dall'inizio si è rifiutato di collaborare e difficilmente sarà disposto a tradire la fiducia presidente. Le indagini, però, potrebbero portare direttamente all'interno del clan Trump, in primis coinvolgendo il genero Jared Kushner. E poi c'è Donald Jr., finito nella bufera per un incontro durante la campagna elettorale con l'avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya, vicina al Cremlino. La messa in stato di accusa del presidente rimane un'ipotesi remota.
Tuttavia la vera spina nel fianco per la Casa Bianca potrebbe essere il «bugiardo» Papadopoulos: secondo gli esperti potrebbe aver registrato conversazioni telefoniche, colloqui e incontri. E non è escluso che diventi la scorciatoia in mano a Mueller per arrivare dritto al presidente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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