Salvini non perdona Maroni I suoi cancellati dalle liste

Volano stracci nella Lega. Il governatore stizzito: "Sono stato trattato da lui con metodi stalinisti"

Salvini non perdona Maroni I suoi cancellati dalle liste

Volano gli stracci nella Lega che fu del Nord e che oggi, dice il governatore dimissionario Bobo Maroni, «è un partito diverso, che non so che successo potrà avere». Quando mancano meno di due mesi alle urne di marzo, la crepa che s'è riaperta tra i maroniani e il leader Matteo Salvini rischia di allargarsi a voragine che tutto inghiotte, se non verrà circoscritta nei modi e nei tempi. E soprattutto nella sostanza, considerato che non basta il rifiuto di Salvini a scendere nell'arena, come ha scritto ieri su Facebook, visto che sul Corsera aveva ribadito di esser stato messo in difficoltà da Maroni, mentre più tardi il bodyguard Centinaio faceva la faccia feroce: «Questa è la Lega di Salvini, prendere o lasciare». Le due componenti si guardavano in cagnesco e i maroniani avevano ragione di temere l'annientamento tramite cancellazione dalle liste elettorali. Ritorsione che, indebolendo la Lega, non mancherebbe di tagliare alla radice le mire di Salvini su Palazzo Chigi. Rafforzando, per beffardo contrappasso, quelle che il popolare Bobo nega ma sembra accarezzare in un suo libero sfogo apparso ieri sulle pagine del Foglio.

«Dispiaciuto» per il trattamento ricevuto, il governatore accusa metodi e linea del leader, fino a svelare il timore salviniano di vederlo in pole position per Palazzo Chigi in caso di stallo post-elettorale. «Un ragionamento sbagliato - spiega -. Io sono una persona leale e sosterrò il segretario del mio partito come candidato premier. Ma, da leninista, non posso sopportare di essere trattato con metodi stalinisti e di diventare bersaglio mediatico solo perché a detta di qualcuno potrei essere un rischio». Maroni consiglia non solo di «ricordare che fine ha fatto Stalin», ma anche di riaggiornare il leniniano «estremismo malattia infantile del comunismo» in «estremismo malattia infantile della politica».

Le questioni poste da Maroni non riguardano però solo le «dichiarazioni sprezzanti e sorprendenti... quasi che il mio segretario utilizzasse la mia scelta di vita per cercare di colpirmi» o il fatto di sentirsi «massacrato dai compagni di squadra» ritrovandosi, invece, «ricoperto di affetto e amicizia» da chi non ci si aspettava (un sms di Renzi, un quarto d'ora al telefono con Napolitano). Se Maroni rigetta con vigore le accuse del leader, in quanto «Salvini è stato il primo a sapere tutto da mesi», ciò che davvero sembra emergere è il suo bisogno quasi fisico (si direbbe generazionale) di potersi smarcare da un mondo nel quale non si riconosce più da tempo. Preferendo Macron a Le Pen («il lepenismo è morto e sepolto, chi non lo capisce è destinato a fare una brutta fine») e aborrendo le decisioni con l'accetta del segretario in campo giuslavoristico («Rottamare il Jobs Act? Non scherziamo, va migliorato con i correttivi della legge Biagi») nonché quei suoi ricorrenti fremiti giustizialisti.

Eppure, pronostica Maroni, con «questa legge elettorale del menga» sarà difficile avere una maggioranza in grado di garantire governo. Se «grazie soprattutto all'impegno straordinario di Berlusconi il centrodestra avrà una maggioranza forte, per arrivare a nuove elezioni passeranno minimo due anni». A Salvini azzoppato, Maroni mezzo salvato.

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