Roma - Quindi secondo lei nel Pd c'è ancora speranza?
«No, Speranza se ne è andato da un pezzo».
Che battutaccia...
«Vabbè, chiedo ammenda. In realtà la speranza, con la minuscola, c'è ancora, purché la smettano di spaccarsi e formare nuovi partiti. Serve una discussione vera e poi un congresso che nomini un segretario che sia pure il candidato premier. Va bene avere idee diverse, però basta con l'opposizione interna».
Litigano, rilitigano, litigano di nuovo, si separano fino all'esplosione dell'atomo. A sinistra accade da sempre. «Cosa fanno due socialisti in una stanza? - diceva Pietro Nenni - Si scindono». E succede più spesso, con più virulenza, da venticinque anni a questa parte, come ha raccontato in Déjá vu, edizioni Il Saggiatore, Francesco Cundari, brillante giornalista che ha lavorato per il Riformista, Il Foglio, l'Unità, il Messaggero e che adesso dirige Left Wing.
Separarsi sempre non sembra più una scelta, ma un destino biblico.
«Già, e colpisce la simmetria di queste divisioni. Un meccanismo perverso che si ripete ineluttabile e su scale via via più ridotte. Soprattutto dopo le sconfitte, si moltiplicano le scissioni in nome dell'unità e le spaccature in nome dell'armonia».
E dopo le vittorie?
«No, quando si vince no. Le vittorie hanno molti padri, le sconfitte invece nessun genitore ma tanti fratelli litigiosi che si disputano le povere spoglie e si lanciano in dolorose scissioni avvolte da velleitari propositi di riunificazione della sinistra. A proposito di Roberto Speranza: io non voglio infierire, però ricordo bene che proprio lui, che già aveva lasciato il Pd per creare Leu, il sei marzo ha proposto di dare vita a un nuovo soggetto unitario. Ma di che stiamo parlando?».
Ci si spacca dicendo che si vuole pacificare. Perché?
«Il motivo è anche più a monte. Ci troviamo, come si vede bene in questi giorni di crisi, in una situazione politica generale bloccata dove si parla più di regole che di cose da fare. Si discute soltanto di riforme istituzionali e di legge elettorale, montiamo e smontiamo sistemi come in un gioco di società. Nella scorsa legislatura abbiamo avuto tre diverse modalità di voto: l'Italicum, bocciato dal referendum, il Tedeschellum, saltato all'ultimo per il no dei grillini, e il Rosatellum. Abbiamo avuto cinque referendum sulla legge elettorale e ora già si parla di ricambiarla. Insomma, ci sia affanna sui regolamenti e non si gioca mai la partita. La sinistra paga tutto ciò».
E non sconta anche lo scollamento dalle periferie, la difficoltà di ascoltare i bisogni della gente? Gli operai votano Lega o M5s.
«Lo scollamento dalla periferie risale agli anni ottanta, i voti vanno e vengono... no, le cause dei problemi della sinistra e della litigiosità interna secondo me sono altre. Alla base c'è il problema irrisolto del contrasto tra il partito e la coalizione. Nel 1996 vinse l'Ulivo, Prodi era il presidente del Consiglio e Veltroni il suo vice. D'Alema, segretario dei Ds, difendeva il valore del partito rispetto alla coalizione e fu accusato di aver tramato e poi fatto cadere il Professore. Nel 2008, scenario opposto, Prodi a Palazzo Chigi e Veltroni alla guida del Pd, che diceva prima il partito. Non se ne usciva».
Dieci anni dopo la sinistra non ha smesso di litigare.
«Il Partito democratico, ossia la fusione tra le due grandi anime del centrosinistra, doveva rappresentare la soluzione del rebus, il sistema di mettere insieme le due cose. Il leader del partito è il leader della coalizione».
Non ha funzionato, pare.
«Ha funzionato per un po' con Renzi. Quando è arrivato al 40 per cento nessuno metteva in discussione il doppio incarico. Ma il problema sono le primarie, che hanno provocato due fonti diverse di legittimazione e concesso ai predenti di costruire un'opposizione interna. Adesso si rimette sempre in discussione tutto, anche le cose appena deliberate da un organismo».
Come se ne esce?
«Con una discussione vera. Poi con un congresso».
Renzi che dovrebbe fare?
«Imparare da D'Alema. Quando perse le elezioni e lasciò il governo, non diede vita a un partito suo, ma appoggiò Fassino e una linea riformista».
E se
invece lancerà In Cammino, come Macron?«Allora torneremmo indietro di oltre dieci anni, ai tempi di Ds e Margherita, Solo che saranno due partiti del dieci e del cinque per cento. E magari continueranno a spaccarsi».
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