Suicida per un video hard in rete Per il pm è istigazione al suicidio

Tiziana Cantone costretta anche a pagare 20mila di spese ai siti che avevano parlato di lei. Derisa anche da due calciatori

Antonio Borrelli

É una vicenda che rimarrà nella storia dei complessi rapporti tra privacy e tecnologie, quella che si è conclusa martedì scorso con il suicidio di Tiziana Cantone. Una storia che racconta l'inferno in cui ti può trascinare internet. É l'aprile del 2015 quando la donna, 31enne, invia ad alcuni amici sei video che la ritraggono mentre ha dei rapporti sessuali. In uno dei video, la ragazza si fida, parla col compagno, non può immaginare che quelle immagini stanno per essere viste da milioni di persone. Quel video hard viene presto diffuso da uno degli «amici» e per uno spietato effetto domino rimbalza in breve tempo prima tramite Whatsapp per poi attraversare siti di ogni natura, raggiungendo in poco tempo milioni di visualizzazioni. É proprio quando la storia di Tiziana arriva sui social che la sua vita cambia per sempre. Un morboso tam tam sul web diffonde il nome della donna, le sue immagini, la sua vicenda, le amicizie e gli amori passati. Una gogna mediatica che non ha precedenti.

Una delle frasi pronunciate da Tiziana Cantone nel video, «Stai facendo un video? Bravo», diventa un «meme», ossia un mantra parodico utilizzato da migliaia di utenti, compresi due calciatori Paolo Cannavaro e Floro Flores, per deriderla e denigrarla. Per paradosso la ragazza diventa un personaggio pubblico, oggetto di costume e dileggio, la sua frase finisce perfino su una t-shirt ancora oggi in vendita. Il perverso meccanismo raggiunge il suo apice quando il «tribunale del web» si riversa contro la donna napoletana. Nelle migliaia di commenti gli utenti la insultano, la minacciano, la invitano a fare sesso, forniscono ulteriori dettagli su di lei e ne inventano altri.

É la ghigliottina a cui internet ci ha abituato negli ultimi anni, quella che colpisce casualmente, sulla base delle reazioni e dei «trend topics» degli utenti. Dopo tre mesi da quell'assurdo aprile la Cantone era già virtualmente morta, l'aveva uccisa il web. Tiziana è depressa, non esce più di casa, lascia il lavoro e taglia quasi tutti i rapporti sociali, decide di abbandonare la provincia di Napoli e di trasferirsi in Toscana per lasciarsi tutto alle spalle. Nel frattempo ingaggia una battaglia legale per il diritto all'oblio: lo scorso 7 settembre ottiene dal tribunale di Napoli Nord un provvedimento d'urgenza con il quale si intima a Facebook di rimuovere post, commenti e contenuti multimediali relativi alla donna. Ha vinto la sua battaglia ma nella stessa decisione c'è scritto che la 31enne avrebbe dovuto pagare 20mila in totale a cinque siti che invece erano stati assoltì: Citynews, Youtube, Yahoo, Google e Appideas. La famiglia però nega: «Non doveva pagare nulla e non si è uccisa per quello». Ma la spirale di vergogna in cui era stata catapultata era ormai insopportabile: alcuni giorni fa aveva già tentato il suicidio, martedì scorso ci ha riprovato e si è impiccata con un foulard in uno scantinato a casa di alcuni parenti.

Tiziana Cantone non è soltanto l'ultima vittima del «revenge porn» (la categoria dei video hard messi sul web per scherno o vendetta), ma è soprattutto l'ultimo bersaglio dell'espiazione barbarica del mondo di internet. Sulla morte della donna campana la Procura di Napoli Nord ha ora aperto un'inchiesta coordinata da pm Francesco Greco. L'ipotesi di reato avanzata dai magistrati è molto grave: induzione al suicidio.

In queste ore si stanno infatti vagliando gli ultimi contatti avuti dalla donna sul web (sembra che soltanto due giorni fa qualcuno avesse infierito con dei messaggi) e dall'esito dell'indagine potrebbero emergere imputazioni ancora più gravi.

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