Tangenti e (forse) un omicidio: il caso Di Stefano fa tremare il Pd

Il deputato è accusato di avere intascato 1,8 milioni di euro. I pm di Roma lo sentiranno anche sulla misteriosa scomparsa di un suo collaboratore. L'imbarazzo del partito

T angenti milionarie, sparizioni misteriose, «minacce» intercettate ai compagni di partito, voci di dossier e registrazioni di presunti brogli alle primarie. La procura di Roma, indagando sugli affari della famiglia di imprenditori edili Pulcini, è andata a sbattere col «caso» di Marco Di Stefano. Parlamentare Pd (autosospeso dal gruppo dopo essere stato mollato dal partito), già due volte assessore nella giunta regionale del Lazio guidata da Piero Marrazzo, Di Stefano è diventato un bel problema per i dem, che sulla questione non a caso mantengono un rigorosissimo silenzio.

Intanto per quelle accuse, pesanti, su cui è al lavoro la magistratura romana. Secondo la quale il politico avrebbe intascato una ricca mazzetta in cambio di un lucrosissimo (e fuori mercato) contratto d'affitto per due palazzi di proprietà dei costruttori romani Pulcini, fatto sottoscrivere alla Lazioservice , società controllata dalla Regione e gestita, almeno a leggere le carte, in modo clientelare. I Pulcini, grazie alla «rendita garantita», riuscirono poi a rivendere i palazzi con una ricca plusvalenza. E, secondo i magistrati, ringraziarono Di Stefano mettendo mano al portafogli. Un milione e otto all'ex assessore, 300mila al suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli, stando a quanto hanno dichiarato ai magistrati l'ex moglie di Di Stefano, Gilda Renzi, e Bruno Guagnelli, fratello di Alfredo. Che, per aggiungere un po' di giallo alla vicenda, è svanito a ottobre 2009, dopo aver incontrato proprio Di Stefano. Per la procura di Roma, che indaga per omicidio e che presto sentirà anche il politico, forse Guagnelli è stato ammazzato.

Tocca ai magistrati chiarire eventuali responsabilità di Di Stefano. Ma l'indagine ha restituito un'immagine non proprio immacolata del centrosinistra che negli ultimi anni ha amministrato Roma. Un quadro a tinte fosche che emerge dalle intercettazioni in cui il deputato Pd, sentendosi spacciato nella corsa a Montecitorio, attacca le primarie del suo partito paventando «imbrogli ripresi», e minaccia di spifferare verità «scomode» sull'uso dei fondi del gruppo Pd in Regione. Un quadro che si riflette nel silenzio imbarazzato del partito, sia a livello locale che nazionale. E nelle «strane» risposte alle interrogazioni che il leader de La Destra Francesco Storace ha rivolto alla Regione amministrata da Zingaretti sulle operazioni immobiliari di Lazioservice , con la giunta che definisce «regolari» le procedure.

Di certo, la parabola di Di Stefano racconta le dinamiche di una carriera politica in cui il consenso pare procedere di pari passo con la coltivazione delle clientele e con i «messaggi» mandati al partito quando le cose si mettono male. Un passato da poliziotto, Di Stefano entra in politica con il Ccd. Viene eletto consigliere circoscrizionale e, nel 1997, sbarca in Campidoglio con 3mila preferenze. I voti «aumentano esponenzialmente», si legge sul suo sito web, nel 2001. Alla vigilia delle Regionali 2005, Di Stefano, capogruppo Udc in Campidoglio, annuncia che si candiderà con Marrazzo, grazie alla «sintonia» con Veltroni. Porta in dote 14mila voti, si ritrova assessore al Patrimonio. A febbraio 2009 Marrazzo lo silura in un rimpasto. E Di Stefano scatena la guerra. Sembra la stessa dinamica «intercettata» dopo le ultime primarie: se affondo io, affondate tutti. E così ecco le accuse al governatore di essere «sotto schiaffo di Roberto Morassut (all'epoca segretario romano del Pd, ndr ) e Giuseppe Fioroni», ecco i sospetti sulla Sanità, ecco le rivelazioni-bomba sui «pizzini» con raccomandazioni ricevuti da colleghi della giunta. Rottura? Macché. Sette mesi dopo Di Stefano incassa in premio l'assessorato all'Istruzione. Marrazzo scivola sullo scandalo trans. Il Pd perde la Regione. Lui? Rieletto con 16mila voti.

L'ultima tappa è il Parlamento. La direzione del partito gli piazza davanti cinque «blindati» dopo le primarie.

Di Stefano si ritrova primo dei non eletti, tra minacce di guerra. Ma anche stavolta gli va bene. Ad agosto il sindaco di Roma, Marino, chiama in giunta la deputata Pd Marta Leonori che libera un posto a Montecitorio. È il suo.

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